sabato 24 novembre 2018

Storie e cantastorie.

Mauro Corona e Luigi Maieron
Due amici si raccontano davanti al fuoco e a un bicchiere di vino.
Uno dei due è Mauro Corona, ormai conosciutissimo scrittore, convertito a un filosofeggiare che lo ha portato alla ribalta (e in televisione). L'altro è Luigi Maieron, cantastorie conosciuto soprattutto a livello locale, ma che si rivela una scoperta piacevole.
Il libro è tutto qui, nella trascrizione di una o più conversazioni tra amici: raccontano storie di donne, di musicanti, di famiglia e - soprattutto- raccontano se stessi. L'interesse di questo libro (e anche il suo limite) è tutto qui. Se quanto viene raccontato interessa il libro scorre velocemente, se invece non colpisce immediatamente allora viene voglia di saltare il capitolo e mollare tutto.

Trio Pakai nel 1974
Il libro è stato scelto da Marco che lo aveva trovato interessante. Il racconto a quattro mani (o due voci che dir si voglia) e il sapore di storie antiche e di montagna gli era piaciuto anche se lo stile non lo aveva colpito particolarmente, anzi all'epoca gli era parso un passo indietro rispetto ai primi lavori di Corona.
Opinione, questa, che alla fine della discussione è stata condivisa da quasi tutti. Il libro - nonostante sia stato pubblicato da una grossa casa editrice - è risultato piuttosto piatto e con un editing non particolarmente curato. Probabilmente si tratta di un caso da "piglia i diritti e scappa". Corona ha un suo seguito e questo basta e avanza per vendere un buon numero di copie.
Ha anche una buona dose di detrattori, così ben tre di noi il libro non sono riuscite a finirlo.
Nonostante questo il libro tutto sommato non è dispiaciuto. I racconti di Maieron, che ricorda i musicanti più famosi del Friuli con numerosi aneddoti, e in generale la struttura del libro, ricordano non poco i fogolars di una volta. Rivive così un Friuli ormai dimenticato che ha il fascino antico della montagna e della neve.
Una operazione nostalgia che tutto sommato funziona.
Corona è Corona, con il bagaglio pesante della famiglia e dell'educazione che ha avuto, e una voglia di rivalsa che nonostante il successo si porta ancora addosso. Dove finisca il personaggio (il filosofastro, come dice lui stesso) e dove inizi il vero Corona è difficile da capire, e probabilmente non ha importanza. Maieron è una bella scoperta e sicuramente un cantastorie di talento.
Certo che se il primo capitolo, dedicato alle donne, non fosse stato così ostico...

Ho trovato una sola recensione, di Cristina (3 stelline).
Una amica diceva che le persone si dividono in due gruppi, quelli che raccontano solo di sè (come Mauro Corona) e quelli che raccontano prevalentemente degli altri (Luigi Maieron docet, tirargli fuori robe personali pare impossibile in questo volume).
Con ogni probabilità se fosse stato un audiolibro mi sarebbe piaciuto di più, trattandosi della trascrizione di una serie di conversazioni (sicuramente riviste, corrette e editate) tra Mauro Corona e Luigi Maieron. Meglio se letto da loro, ne avrebbe sicuramente guadagnato.
Così mi è piaciucchiato ma non mi ha particolarmente colpito, un po' per la predominanza nel racconto di Mauro Corona un po' perchè non sono riuscita a comprendere appieno lo scopo di questo breve libro che è un pò racconto di vita, un po' racconto epico della gente carnica (a volte sembra di essere attorno al fuoco, nei boschi, a senti raccontare antiche fiabe e antichi miti).
Se Maieron scrive altro sicuro lo leggo.


Il libro del prossimo mese è  Il bene sia con voi di Vasjili Grossman, scelto da Lia.






Ci si vede martedì 11 dicembre, solito posto solita ora.
E attenzione che la prossima volta c'è l'ormai tradizionale Babbo Natale libresco.




lunedì 15 ottobre 2018

Una stanza tutta per gli altri

Alicia Gimenez-Bartlett
Chi serve nella casa di un re finisce per credersi di sangue nobile solo perrcé sa che differenza c'è tra l'oro e l'ottone.

Alicia Giménez-Bartlett lascia le indagini dell'ispettrice che l'ha resa famosa e si immerge nell'Inghilterra di inizio Novecento e tra le due guerre mondiali. E non una Inghilterra qualunque ma quella di Virginia Woolf nella cui cucina ci ritroviamo a vivere, addirittura.
Conosciamo così il Bloomsbury Group, un gruppo variegato di intellettuali (scrittori, pittori, economisti ne hanno fatto parte negli anni) le cui opere (e comportamenti) hanno influenzato la società inglese per almeno un ventennio. Lo facciamo, però, da un punto di vista diverso, attraverso gli occhi di Nelly Boxhall che dei Woolf fu la cuoca per quindici anni.

L'opera mescola con abilità biografia e invenzione letteraria (la Giménez-Bartlett immagina il ritrovamento del diario di Nelly ma i fatti narrati sono ricavati dal diario di Virginia Woolf). Già dal titolo, che richiama quello del famoso saggio di Virginia Woolf "Una stanza tutta per sé", si comprende un po' dove vuole andare a parare l'autrice. Si tratta infatti sia di una celebrazione della vita e delle opere della famosa scrittrice, sia di una critica alla stessa.
Di Virginia Woolf ci vengono mostrati fascino e cultura, ma anche le tante ipocrisie e l'incapacità di vera empatia verso le sue "serve", frutto di educazione e differenze sociali che ancora oggi sono presenti nella cultura inglese.
Il quartiere di Bloomsbury, oggi
Il racconto di Nelly, via via più critico nei confronti della Woolf, descrive bene anche il vissuto sociale delle tante, tantissime donne obbligate ad andare a servizio, spesso prive di famiglia e di istruzione e quindi di possibilità di emanciparsi. Nelly, a modo suo, vivendo nell'ambiente di Bloomsbury acquisisce una maggiore consapevolezza di se e dei propri diritti, ma come dice spesso nel libro, si tratta di un'arma a doppio taglio, che di fatto la fa vivere in un limbo. Non sente più di appartenere al ceto (e all'ambiente) dove è nata ma non potrà mai appartenere nemmeno a quello in cui si trova a vivere perché anche coloro che fanno gran vanto delle proprie lotte per l'uguaglianza sociale la tengono ben distante.
Emblematico, in questo, che i Woolf non concedano a Nelly una stanza tutta per se all'interno della propria casa. In quella che è la scena più importante del libro Nelly rivendica i propri spazi e lo fa proprio scacciando la scrittrice dalla sua stanza.
Virginia Woolf  esce dal racconto un pochino ammaccata, diciamo. Ma il ritratto che ne viene fatto è probabilmente molto più veritiero di quello di tanti saggi e biografie.

Devo dire che mai prima d'ora c'era stata una simile convergenza di opinioni. Il libro è piaciuto a tutte. E' scritto bene, interessante e basato su una richerca bibliografica accurata. La cuoca Nelly, pur nel suo carattere spigoloso e qualche volta fuori dalle righe ci è stata da subito simpatica, tanto che avremmo voluto che il diario esistesse veramente.
L'unica obiezione presentata è che dal racconto la figura di Virginia Woolf ne esce un po' maluccio, perde quell'aurea di progressista che la lettura del bellissimo Una stanza tutta per sé faceva immaginare. Nonostante tutto la Woolf era troppo figlia del proprio tempo e del proprio ceto per poter davvero capire le rimostranze del proprio personale di servizio. La scrittrice dimostra, però, anche una pazienza e una tolleranza verso alcuni comportamenti di Nelly che probabilmente all'epoca ben pochi avrebbero avuto. Forse aveva ragione Agatha Christie in parecchi suoi gialli quando scrive che la perdita di una buona cuoca è una tragedia per una casa ^_^.

In rete ho trovato ben due recensioni (che come vedrete convergono sul voto complessivo dell'opera). A grande richiesta d'ora in poi non parleremo più di stelle, nelle valutazioni, ma passiamo direttamente alle palle. Un po' dissacrante ma chiaro.

Monica - 4 palle!
Virginia Woolf
Un gran bel libro, molto interessante.
Ci fa conoscere Virginia Woolf da una prospettiva diversa da quella autobiografica dei suoi libri.
Lo fa attraverso le parole della sua domestica, donna umile, orgogliosa, che acquisisce indipendenza di pensiero giorno dopo giorno, vivendo in quella casa sempre piena di artisti ed intellettuali.
È passato un secolo esatto da allora, ma pare che molte cose non siano cambiate.
Libro attualissimo, adesso che la parola radical chic è molto di voga, con tutte le sue connotazioni.


Cristina - 4 palle!
Confesso che di Virginia Woolf non sapevo quasi nulla (a parte che si è suicidata e che era una scrittrice). Di suo ho letto (se così si può dire, l'ho caldamente odiato) Orlando. Mi piaceva l'idea di questo essere che a ogni cambio di secolo cambia anche sesso, ma la trattazione mi ha urticato parecchio e alla fine ho desistito.
Colpa mia? Sicuro. Quanto meno per non aver scelto un libro nelle mie corde.
Sta premessa per dire che non avevo aspettative sul libro (nemmeno sull'autrice di cui ho letto solo un paio di gialli, carini, peraltro).
Comunque mi è piaciuto (più la prima parte che la fine onestamente). Mi è piaciuta la voce di Nelly, e l'ambiente (per quanto particolare come quello in cui vivono i protagonisti) tra le due guerre mondiali, visto attraverso gli occhi di una donna, non sposata e per di più costretta a lavorare praticamente priva di diritti. Ed è proprio dalla richiesta di diritti che nascono le tensioni. Mi domando come abbiano potuto vivere sotto lo stesso tetto in quella tensione e, pur parteggiando per Nelli, ammetto che se spesso (soprattutto alla fine) il suo comportameno risulta sgradevole, come quello di tutti quelli che chiedono ciò che gli spetta, in fondo.
La Woolf non ne esce benissimo, forse, ma il ritratto mi pare aderente a quello di una donna del suo ceto in quel periodo: da una parte lotta per i diritti ma si sconvolge e non poco quando si rende conto che quei diritti spettano anche alle sue cameriere.
Interessante. 


Prossima serata martedì 13 novembre. Il libro del mese sarà Quasi niente di Mauro Corona e Luigi Maieron.


A presto.


giovedì 27 settembre 2018

Il commesso.

Erano i primi di novembre e all'alba l'oscurità della notte durava ancora nella via, ma il vento, con meraviglia del negoziante, imperversava già. Gli sbatté con violenza il grembiule in faccia mentre si chinava a raccogliere le due cassette di latte dal bordo del marciapiede. Ansimando, Morris Bober trascinò fino alla porta i pesanti recipienti

 Secondo dopoguerra. Una New York che dovrebbe essere quella del boom economico, delle grandi occasioni per tutti, e che invece si avvita su se stessa, incapace di un cambiamento, che sia anche quello di fallire, di vendere, di andarsene. 
Morris Bober ha il destino già scritto: ce l'ha nel nome. Come ci chiarisce subito l'autore Bober in yiddish significa "persona da poco". Non ha ambizioni di sorta, solo il rammarico di non aver saputo o potuto dare di più alla moglie Ida e alla figlia Helen che invece ambizioni e speranze ne ha ancora ma le sacrifica per aiutare la famiglia.
Morris manda avanti a fatica un negozietto di alimentari che è sull'orlo del fallimento. Lo è sia perchè altri negozi hanno aperto nelle vicinanze sia perché Morris, purtroppo, non ci sa fare, non è tagliato per fare il commerciante.
Tuttavia quello è il suo lavoro, sembra impossibile smoverlo da quel negozio anche se sa che falliranno. Non ci riesce la moglie, che invece vorrebbe vendere, non ci riesce Helen, che non dice nulla, ma sogna un fururo migliore.
Una sera le cose peggiorano, se possibile. Morris viene rapinato e ferito, per quasi nulla, pochi spiccioli.
Qualche giorno dopo nella vita di Morris e di Helen entra Frank Alpine, italo americano, che si offre di aiutare in negozio. E' quasi un senza tetto, si accontenta del pochissimo che gli possono dare, e così diventa il commesso di Morris.

Il commesso è un racconto di personaggi: la dignità di Morris, onesto anche quando essere onesti fa più danno che altro, soprattutto alla sua famiglia; la luce e le tante ombre di Frank, che onesto non riesce a essere, anche se vorrebbe, anche se si innamora di Helen e sogna di essere migliore per lei, ma poi, quando davvero potrebbe fare la differenza causa dolore e sofferenza; La forza di Helen, che forse ce la farà, e se ce la farà sarà grazie ai sacrifici di Frank.


Ci ha colpito, ne Il commesso, questa specie di cappa che sembra avvolgere i personaggi, questa incapacità di ribellarsi a un destino che sembra già scritto. Frank è l'unico personaggio che evolve nella storia, pur con infiniti passi falsi e ricadute. Ma lo fa abbracciando il destino di Morris. Per Morris stesso il destino è davvero beffardo. Quando sembra andare tutto per il meglio, ecco che il fato si mette in mezzo. E il finale, che è aperto, non ispira un particolare ottimismo nel lettore.

Allegro non è, questo libro, ma offre infinite possibilità di discussione, di riflessione. Si può parlare di Morris che è dignitoso e onesto, ma il cui comportamento dignitoso e onesto porta al disastro. Si può parlare all'infinito di Frank, sicuramente il personaggio più complesso del volume, tutto luci e ombre, passi avanti e cadute nel baratro, attraente come i cattivi soggetti riescono a essere, e al contempo sgradevole e inaffidabile. Si può parlare dei sogni di Helen, giovane donna che non si rassegna a diventare la moglie di qualcuno solo per sistemarsi ma vorrebbe per se qualcosa di più.

Il libro è piaciuto. Molto a Marco e Annarita, sicuramente. Più critiche Rita, Lia e Cristina. Stefania, Zaffira e Marilaura per ora non lo hanno affrontato, ma domani chissà. Monica, che lo ha scelto, lo ritiene un libro forse non facile, ma da leggere comunque, proprio per tutte le ragioni di cui sopra.

Solo una recensione, quella di Cristina, e mi spiace perchè è un poco critica (3 stelle) mentre invece il libro è in genere molto apprezzato:
Becoming Morris...
Qualcuno mi spieghi perchè i capolavori devono essere tristi che più tristi non si può. E di tristezza qui ce n'è da bastare per tre, forse persino quattro altri libri!
Morris Bober ha un negozio di alimentari sull'orlo del fallimento, un po' per la crisi, un po' tanto per incapacità. E' onesto o dignitoso, umano e gentile, ma inadatto a fare il commerciante. Una persona normale se ne sarebbe accorta subito e sarebbe passata a altro ma se lo faceva allora il libro dove finiva? E fortuna che l'America è il paese delle opportunità!
Quindi Morris persevera verso il disastro e lo fa fidandosi del commesso, tale italoamericano Frank Alpine, che non ha nessuno dei pregi di Morris, ma possiede un certo qual fascino, quello di chi è diviso tra onestà e disonestà, tra bontà e cattiveria.
Poi c'è Helen, figlia di Morris, che ha ancora qualche aspettativa dalla vita, e che forse ce la farà, nonostrante l'errore di fidarsi - pure lei - di Frank. Errore che paga in prima persona, ma che mette in moto il riscatto morale di Frank. La trama prosegue tra sfortune e dolori fino a un finale che sembra aprirsi alla speranza e al riscatto ma che invece crolla su se stessa.
Ma almeno Morris è morto con la speranza nel cuore, ignaro del nuovo schiaffo che il destino darà alla sua famiglia. Qualcuno dovrebbe evitare di mettere prefazioni piene di anticipazioni sulla trama all'inizio del libro, soprattutto se trattasi di ebook te le leggi e poi quando il libro non ti piace ti senti pure intellettualmente inferiore (cosa che probabilmente pure sono, eh). Tre stelle perchè ho faticato a finirlo ma l'ultima parte è davvero bella e per il personaggio di Morris che è adorabile. Per tutta la lettura ho avuto in mente l'immagine della Pietà Bandini, chissà perchè.


Libro del prossimo mese: Una stanza tutta per gli altri di Alicia Giménez-Bartlett. Lo ha scelto Marilaura.



Ci si vede martedì 9 ottobre.





domenica 29 luglio 2018

Questo lato della verità.

Quante volte ho sentito dire la frase "non ho parole". Riesco perfino a sorridere di queste undici lettere che significano l'esatto contrario di quello che esprimono, l'impossibilità di parlare quando siamo sopraffatti dalla quantità di cose da dire.

Sotto cieli noncuranti "ruba" il titolo a un verso di una poesia che Dylan Thomas dedica al figlio maggiore.
Lo trovo adatto: anche Sotto cieli noncuranti è un libro di figli.
In questo caso si parla di figli persi, in una tragedia, e di figlie che una tragedia la devono affrontare, passando attraverso lutto e sofferenza, mentre gli adulti si rifugiano nel loro mondo fatto di quotidianità e lavoro.
Apparentemente è un giallo, un'indagine.
Il figlio di Pietro, imprenditore di successo con moglie a Torino e amante a Roma, muore. Cade da una finestra. In casa solo la madre. E' stato un incidente? E' stato un omicidio?
Sul caso indagano Violaine, ex sciatrice ora psicologa prestata alla città con genitori che vivono su, in paese, tra la neve, e il magistrato Giovanni Corrias. Siamo a Natale e Torino è sotto la neve. Ed è proprio sotto la neve che muore la moglie di Corrias. Un incidente, mentre porta il cane di casa a fare la sua passeggiata.
Ecco che l'investigazione lascia  il posto al racconto di una famiglia in lutto, e alla voce di Matilde la figlia dodicenne del magistrato "quella con la spina più fonda nel cuore". Durante le indagini tra la famiglia Corrias e Violaine i rapporti si stringono e appena qualche giorno dopo il funerale si ritrovano tutti a casa dei genitori della poliziotta, con Il Barba e la moglie, coinvolti nelle celebrazioni di Capodanno.
Come in tutti (o quasi) i gialli alla fine si scoprirà come si sono svolti i fatti e una qualche misura di pace (fosse anche temporanea) i protagonisti la trovano: che il prossimo anno sia bellissimo.

Il libro ci è piaciuto, ha una scrittura in alcuni tratti pregevole, ma non si perde in arzigogoli da premio letterario (qualcuno lo ha comunque vinto).
Belle le descrizioni del Paese tra la neve, in bilico tra abbandono e riscoperta turistica, bed and breakfast e tradizioni centenarie. Ci sono piaciuti Il Barba e la moglie. Il Barba, soprattutto, con la sua saggezza e ruvidità da vero montanaro.
Il finale, però, è troppo veloce, e anche un po' raffazzonato, e un romanzo che parte davvero benissimo si perde e si sfilaccia.
Diventa difficile dividere le tante voci narranti che si susseguono (anche se Matilde è quella più presente) tanto che la soluzione all'investigazione, se appena appena si salta una pagina, rischia di sfuggire.

Alcune sottotrame aggiungono ben poco al racconto: ad esempio del matrimonio finito del capo di Violaine che è pure un personaggio abbastanza meschino presto ci si dimentica e aggiunge poco se non nulla alla narrazione.
Speravamo in un seguito, ma purtroppo non c'è. In seguito l'autrice si è dedicata a altre storie. Non sapremo mai se Violaine torna in Paese o no, se sposa il suo vecchio fidanzato o no, come cresceranno le tre figlie di Corrias. E' un po' un peccato, ma comunque il libro ci è piaciuto lo stesso.

C'è solo una recensione:
Cristina 4 stelline
Due tragedie si incrociano durante una investigazione. Più che un poliziesco (la cui soluzione avevo indovinato piuttosto presto) un racconto che segue i percorsi del dolore e del lutto. Scrittura piacevole ma altalenante: a volte è poetica più spesso è normale (come forse vorrebbe il giallo).
Un po' troppo veloce sia l'investigazione che il percorso di elaborazione del lutto familiare. Belle le descrizioni della montagna e della vita di un piccolo paese innevato, anche se forse sia la madre che il padre della protagonista sono un po' stereotipati.
Comunque bello.
 


Quindi approfitto e metto la poesia di Dylan Thomas. Serve a nulla ma è bella (e poi le ho rubato pure il titolo del post.

Questo lato della verità (a Llewelyn)
Questo lato della verità
non puoi vederlo, figlio mio 
re dei tuoi occhi azzurri nel paese 
dell’accecante gioventù che ogni cosa è annientata 
sotto i cieli noncuranti 
d’innocenza e di colpa

prima che tu ti accinga
 a un gesto del cuore o della mente

esso è colto e disperso nel buio turbinante
 come la polvere dei morti.
Bene e male, i due modi
 di trascinare in giro la tua morti s
ul mare maciullante,

re del tuo cuore nei tuoi ciechi giorni dileguano come respiro gridando vanno attraverso me e te

e l’anima d’ogni uomo
 nell’innocente buioe nel buio colpevole, la buona

e la cattiva morte, e poi
 nell’ultimo elemento
 volano come il sangue delle stelle,
come le lacrime del sole
come il seme della luna, rottami
 e fiamme, l’enfatico discorso 
del cielo, o re dei tuoi sei anni.

E il desiderio colpevole, fin dal principio delle piante
 degli animali e degli uccelli, acqua e luce, terra e cielo,
 è decretato prima che ti muova 
e ogni tuo atto o parola 
ogni verità, ogni menzogna 
muoiono nell’amore che non giudica.
(trad. Ariodante Marianni) 


Ad agosto ci prendiamo una pausa (che onestamente ci serve).  Ci si vede a settembre, martedì 18, se non erro.
Libro da leggere: Il commesso di Bernard Malamud.




venerdì 22 giugno 2018

Spesso sono felice di Jens Christian Grøndahl

La cosa peggiore fu perderti, ma la seconda cosa peggiore fu che non avesti mai la possibilità di chiedermi perdono.

Ellinor ha settant'anni. Rimasta vedova per la seconda volta decide di cambiare vita. Radicalmente.
Tra lo sconcerto dei figli del secondo marito, che ha cresciuto come fossero suoi, decide di vendere la bella villa nel quartiere bene in cui ha vissuto per anni e di ritornare nel quartiere di nascita, a Copenaghen, dove, come le dice uno dei figli adottivi, non passa giorno che non si abbia notizia di sparatorie e di bande criminali. Ma a Ellinor non importa, l'unica cosa che conta è poter tornare dove è nata, forse per recuperare, anche se ormai è troppo tardi, il rapporto con la madre, mai completamente risolto, forse per lasciarsi alle spalle la sofferenza per la morte del marito e i tanti segreti che hanno segnato la sua esistenza. O forse per riappropriarsi di se stessa e vivere, finalmente e per la prima volta, a modo suo.

Il romanzo - così breve da essere praticamente un racconto lungo - è scritto come una lunga lettera di Ellinor a Anna, un'amica morta molti anni prima in un incidente sulle Dolomiti. Nella lettera Ellinor fa il resoconto della sua vita, dalla nascita alla seconda vedovanza, senza reticenze e anche con un discreto disincanto. Si scopre così il segreto della nascita di Ellinor (è figlia di un soldato tedesco e la madre, giovanissima, la cresce da sola nascondendone le origini), il rapporto con la madre, mai risolto, l'amicizia con Anna che è il suo opposto ma diviene ugualmente la sua migliore amica,  allacciando forse il rapporto più vero e profondo della sua vita.

La discussione è stata sorprendentemente animata, e molto interessante. Dico sorprendente perchè il libro è davvero corto, appena un centinaioi di pagine, e racconta una storia tutto sommato positiva. Oltretutto, pur con i giusti distinguo, il libro è stato apprezzato più o meno da tutte. Annarita ha trovato la protagonista antipatica, e il suo decidere di tagliare i ponti, anche con una certa durezza, con i figli adottivi, l'ha perplessa. Monica, invece, ha rilevato che il libro non ha un fine vero e proprio, non si sa dove vuole andare a parare. Racconta solo la storia di Ellinor ma poi il finale è lasciato per molti versi in sospeso. Le è dispiaciuto che il tema legato alla nascita della protagonista sia stato solo sfiorato, mentre avrebbe forse meritato qualche approfondimento in più. Marilaura è rimasta colpita dal rapporto tra Ellinor e Anna, così forte da resistere davvero a tutto. Ellinor ama Anna sicuramente più del prima marito, superficiale e inaffidabile e presto dimenticato. Ama Anna così tanto che in un certo senso ne prende il posto, sia di moglie che di madre, e soprattutto le perdona tutto, incluso il tradimento.
Credo che Zaffira abbia fatto la disamina più appassionata, infatti credo che le chiederò una recensione scritta.

Riassumendo: ci ha colpito, in Grondahl, la capacità di immedesimarsi nella sua protagonista, con una sensibilità notevole e la capacità di condensare, in un libro così breve, un numero notevole si spunti e tematiche. Alcune non sono che sfiorate (il tema delle origini di Ellinor viene solo accennato, ad esempio, ma aiuta a comprendere molte delle sue scelte di vita e la sua reticenza), così come quello della genitorialità "surrogata" di cui vediamo le conseguenze, ovvero il rapporto con i figliastri che si rompe (anche se non con entrambi) non appena Ellinor inizia ad agire per se stessa e non per il ruolo fino ad allora ricoperto, ma non l'evolversi.
Eppure emerge in maniera vivida il ritratto di una donna che per tutta la vita ha nascosto la sua vera essenza, dalla nascita fino al secondo matrimonio, che si è adeguata - anche felice - al ruolo di matrigna amorevole e moglie devota, ma che non più giovanissima riconquista se stessa, dimostrando che non è mai troppo tardi per vivere a modo proprio. Lo confesso, io da grande voglio essere come Ellinor ^_^.


Prossimo appuntamento martedì 17 luglio 2018, sempre a casa di Zaffira. Libro del mese: Sotto cieli noncuranti di Benedetta Cibrario.





mercoledì 9 maggio 2018

Le tre del mattino

Gianrico Carofiglio
Com'era quella frase di Fitzgerald? Nella vera notte buia dell' anima sono sempre le tre del mattino.

Due giorni a Marsiglia. Niente programmi, niente impegni. Solo un padre e un figlio. E un rapporto da recuperare.

La storia la racconta Antonio, adolescente normale dei primi anni ottanta del secolo scorso. I genitori sono separati, ma hanno un rapporto civile. Antonio vive con la madre, docente universitaria, e accusa silenziosamente il padre, matematico, di essere la colpa del divorzio. In realtà dei genitori sa molto poco, per non dire nulla. Li ama ma conoscerli anche no.
Unica "particolarità" di Antonio è che forse è malato. Ha avuto alcuni episodi di straniamento. I medici parlano di epilessia, ma tutto sommato la diagnosi non gli ha campiato la vita. Prende qualche medicina, deve usare qualche accortezza ma per il resto è un ragazzo come tutti gli altri.
Alla vigilia della maggiore età deve andare a Marsiglia da un luminare di fama internazionale per una visita. Dopo saprà se è guarito oppure no, se è "normale" oppure malato. Alla visita lo accompagna il padre. Dovrebbe essere un impegno rapido, non portano nemmeno la valigia, ma scoprono di dover rimanere a Marsiglia due giorni e due notti in cui Antonio non può dormire assolutamente. Che fare? Forse parlare e conoscersi, almeno un poco, e recuperare un rapporto che sta languendo.

Alla serata, per una serie di sfortunati eventi, eravamo solo in cinque. I ranghi ridotti ci hanno permesso però di discutere un poco del club e di parlare con più calma del libro, ovviamente tra una portata e l'altra ^_^.

La Calanque de Morgiou dove si fermano Antonio e il padre
con Adèle e Lucie durante la gita in barca
Povero Carofiglio, però. Non ci ha impressionato poi tanto.
Tutte abbiamo apprezzato la gradevolezza della lettura, ma pure notato che il libro è un libro furbo, studiato per piacere a un pubblico vasto. E del resto Carofiglio sforna un libro l'anno. E vende molto, anche all'estero.

E' un buon prodotto, curato e piacevole da leggere, ma per Annarita, Monica e Zaffira anche presto dimenticabile. Un libro molto maschile anche, pure maschilista. La madre di Antonio viene raccontata molto - il padre racconta come si sono conosciuti e innamorati, il loro matrimonio, la separazione che, con grande sorpresa di Antonio, è stata voluta proprio da lei - ma rimane una figura senza spessore, come sono senza molto spessore Adèle e Lucie, la coppia che incontrano durante una gita in barca e che li invita alla festa a Marsiglia e Marianne (l'incontro che secondo la terza di copertina cambierà la vita di Antonio per sempre il che ricorda di non fidarsi mai delle terze di copertina).
Sullo sfondo Marsiglia, che purtroppo resta solo uno sfondo, appunto. Qualche incontro ma è giusto un tocco di colore, e il bel capitolo dedicato al Jazz.

Vista notturna di Marsiglia
Per bilanciare le cose, però, bisogna dire che a Stefania e Cristina è piaciuto, proprio per la scorrevolezza e la velocità di lettura. Bello anche il rapporto padre e figlio che in questo libro hanno la possibilità di conoscersi come persone e non come genitore e figlio, creando un rapporto quasi da zero. Interessante anche l'accenno alla malattia di Antonio, vissuto tutto sommato con normalità.
L'epilessia è ancora oggi una malattia per molti versi tabù, innominabile. Certo si parla di piccoli centri ma non credo sia così diverso altrove.
Purtroppo si tratta anche in questo caso di un argomento che non viene approfondito.

Riassumendo: libro piacevole ma non indimenticabile. Un prodotto onesto che può piacere a molti ma magari fatevelo prestare.

Ho trovato solo una recensione, quella di Cristina:
Sarò generosa, arrotondo a quattro stelline. Diciamo che sono molto generosa ma la lettura è stata veloce e tutto sommato piacevole e oggi sono di buon umore (cosa strana).
Certo, il libro é costruito a tavolino per finire in classifica, ma con dignità e capacità, e toccando le corde giuste: un rapporto padre-figlio da recuperare, il figlio quasi adulto, un padre quasi anziano, una città interessante, qualche tematica sociale come la malattia e le coppie omosessuali sfiorata appena appena, qualche racconto di vita alternativa, un bel capitolo sul jazz. Tanta roba, pure troppa. Fosse stata approfondita sarebbe stato un ottimo libro.
Così si accontenta di finire in classifica, e di essere presto dimenticato. Ma per oggi sono quattro stelline.
 


Il libro del prossimo mese è Spesso sono felice di Jen Christian Grondahl, scelto da Cristina.


Prossima serata martedì 12 giugno 2018, ore 20.00 a casa di Miffi.

martedì 10 aprile 2018

Gli anni.

Ora è ciò che ha alle spalle a essere diventato oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti 

Il mutare di un Paese visto e rappresentato dalla vita di una singola donna, dal secondo dopo guerra fino ai primi anni del 2000. Nel mezzo cambiamenti epocali che coinvolgono ogni aspetto della vita sociale, politica, culturale ma anche quotidiana della Francia recente.
Il crollo delle ideologie e la trasformazione profonda del tessuto sociale e dei rapporti familiari sono riassunti in poche immagini emblematiche in cui si descrivono fotografie o filmati di una singola donna, sempre descritta in terza persona, colta in un momento privato o di intimità domestica che diventa poi rappresentativo di un cambiamento sociale o storico.
Le trasformazioni sociali sono invece dettagliatamente descritte in paragrafi che hanno quasi la struttura di elenchi, in cui sono richiamati prodotti, elettrodomestici, libri, film o anche fatti di cronaca che ben servono a definire i cambiamenti prodotti dalla società dei consumi su singoli e collettività.
Il risultato è un affresco, purtroppo freddo e analitico, di un secolo di storia, apprezzabile da chi quegli anni li ha vissuti e, onestamente, meglio se francese. Ma più il periodo si avvicina ai giorni nostri più ci si riconosce dato che, grazie alla globalizzazione, ormai tutto il mondo è paese, pare.

Libro che ci ha diviso. Da una parte Annarita e Zaffira, che lo hanno molto apprezzato, dall'altra chi, onestamente, è stramazzato di noia e lo ha abbandonato. In mezzo Cristina che lo ha finito, ammira l'enorme lavoro di ricerca fatto, ma comunque non lo ha amato particolarmente.

Va comunque riconosciuto alla Ernaux uno stile di scrittura bello e a tratti evocativo, e la capacità di descrivere la trasformazione profonda della società francese ma soprattutto della figura della donna nella società, dalle limitazioni del secolo scorso alla ben più libera e libertina situazione attuale. Le considerazioni finali, tuttavia, non sono ottimistiche: ci abbiamo guadagnato in oggetti e perso in affetti e memoria. Resta saldo ancora il ruolo di nutrice, di madre, tra ex mariti, ex compagni, figli dispersi per il mondo in cerca di lavoro e di sé stessi ma, come dice la citazione iniziale, ormai è ciò che ha alle spalle a essere diventato oggetto del desiderio, non ciò che ha davanti.

Ho trovato solo la recensione di Cristina, da tre stelle:
Può un libro che è un efficace affresco di quasi un secolo di storia essere pure mortalmente noioso? Purtroppo si, può.
Gli anni della Ernaux sono una lunga camminata che attraversa i cambiamenti profondi - anzi epocali - che hanno trasformato la società francese (ma anche la nostra, non è che noi siamo tanto diversi dai cugini d'oltralpe, con le dovute differenze abbiamo attraversato pure noi lo stesso guado).
Al centro la figura della donna, il sesso, il corpo, il ruolo di moglie madre e amante, vissuto in prima persona, dai divieti (molto disattesi) della metà del 900 alla liberalizzazione della modernità che non cambia comunque poi tanto il ruolo di "nutrice" e "referente" della famiglia, ormai allargata e in eterna fuga centripeta.
Purtroppo il metodo scelto è una lunga e a volte stancante elencazione di fatti (spesso per me italiana ignoti) e prodotti (ignoti all'inizio, via via più riconoscibili grazie alla globalizzazione) un po' noiosa cui si alternano delle specie di sipari, diapositive, che riguardano la vita dell'autrice, che utilizza come pietre miliari della propria vita fotografie o filmati di famiglia. Partendo da queste ci racconta di sé stessa con uno stile a volte crudo e spiazzante e si, pure volgare.
Molto ben scritto, ma non per tutti, dato che (come si è visto al club di lettura) o lo si ama o lo si molla estenuati. Io ho resistito fino in fondo e pur apprezzandolo non posso, in tutta sincerità, dire di averlo amato. Ammiro, però, il profondo lavoro di ricerca fatto, e lo stile molto buono.


Il libro del prossimo mese è Le tre del mattino di Gianrico Carofiglio, scelto da Stefania.



Ci si vede martedì 8 maggio, solito posto solita ora.

martedì 13 marzo 2018

Che cosa farò, Bob?

Elizabeth Strout
Che cosa farò Bob? Non ho più una famiglia” – “Sì che ce l’hai”, rispose Bob, “Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto pare ultimamente lo è un po’ meno. 
Questo è ciò che si definisce una famiglia”.

Un altro interno familiare, un'altra storia americana. Un'America di cui si analizza la società, i rapporti familiari sempre più in crisi e sempre più indefiniti, la mancanza di cultura e si, di storia, ma alla quale si lascia comunque una speranza di lieto fine.

Elizabeth Strout è una nostra vecchia conoscenza. Di suo abbiamo già letto Resta con me, storia anche quella familiare, anche quella intrisa di dolore e sofferenza, anche quella con un finale tutto sommato positivo. Ha una notevole capacità di costruire i suoi personaggi e di entrare in punta di penna nelle loro vite che si abbina a una scrittura efficace e mai banale.

New York
I ragazzi Burgess sono tre. Il più grande, Jim, avvocato di successo, sposato con figli, e i gemelli Bob e Susan. Anche Bob è avvocato ma da sempre vive nell'ombra di Jim. Susan, invece, unica a vivere ancora in Maine, ha avuto molto meno successo nella vita, ha un lavoro da un ottico, e sta ancora affrontando i postumi di un divorzio. Con lei vive il figlio Zachary, adolescente problematico, e una stramba signora che ha affittato una camera all'ultimo piano della casa di Susan.
Sullo sfondo New York, città simbolo del successo americano,  ma anche piena di ipocrisia e in cui conta più l'apparenza che la sostanza, e la crisi economica e sociale del Maine, il cui tessuto sociale - già all'origine frutto di migrazioni e di (mancata) integrazione - è minacciato (o meglio così si sentono i suoi abitanti) dall'arrivo di una comunità di somali che non riescono o non vogliono integrarsi.
Un giorno Zachary lancia una testa di maiale all'interno del locale che i somali usano come moschea. Una bravata, in realtà, priva di connotazioni politiche e religiose come scopriremo lungo il racconto, ma che avrà conseguenze notevoli su tutti i protagonisti del libro che si vedono costretti a tornare a casa per aiutare questo nipote spaventato e solo e tutto sommato sconosciuto. 
Portland, nel Maine. Shirley Falls dove la Strout ambienta
il racconto, è una cittadina fittizia.
Il ritorno a casa comporterà affrontare i fantasmi del passato, rappresentato dall'incidente in cui è morto il padre, apparentemente causato da Bob, e quelli del presente: la vita a New York, agiata e di successo ma molto meno felice di quanto appare, una sottile crisi esistenziale che stanno vivendo tutti i personaggi principali, equilibri familiari che si devono ricostruire quando i figli crescono e si allontanano da casa.
Un microcosmo di personaggi in cerca di se stessi che cade e si rialza e alla fine si scopre migliore di com'era, e forse più felice.

Ho trovato due recensioni:
Monica, 4 stelle
Confermo : la Strout mi piace. Il libro all'inizio non coinvolge, parte lento, ma è giusto così. Alla fine si capisce il perché. L'autrice è bravissima a scandagliare nell'animo umano e la vera natura dei personaggi emerge piano piano. La storia può sembrare banale, ma la differenza sta nelle indubbie capacità di questa autrice di entrare così bene dentro i suoi personaggi ma di non prendere posizione e lasciare a noi lettori il libero arbitrio di... pensarci su! Consigliato, ma non per tutti.

Cristina,  4 stelle
Interno familiare molto ben scritto anche se un poco scontato. La Strout ha una notevole capacità di entrare nei suoi personaggi senza forzare le cose. Viene detto il sufficiente e il resto lasciato alla sensibilità del lettore e alle sue aspettative.
I protagonisti sono tutti imperfetti, alcuni anche un po' sgradevoli, ma molto umani nelle loro debolezze e fragilità. Alla fine, tra rivelazioni, crescite personali e qualche discesa dal piedistallo sono tutti migliori, ma in questo caso il finale "lieto" che purtroppo la Strout ritiene necessario (per questa lettrice non sempre lo è) non mi disturba più di tanto. Consigliato.


Stefania gli ha dato 4 stelle (pure lei ^_^) ma non ha recensito.

A questo punto dichiariamo che il libro ci è piaciuto e passiamo a quello del prossimo mese: Gli anni di Annie Ernaux.


Ci si vede martedì 3 aprile 2018, solito posto, solita ora. 


mercoledì 14 febbraio 2018

Come rette parallele...

Isabella Bossi Fedrigotti
Voglio essere la prima ad andarsene, secondo una corretta contabilità dei morti, perchè sono la maggiore: m'illudo che potrebbe essere una vendetta, che lasciandola sola sia costretta a compatirsi, a compatirmi, ad amarmi un poco, nel ricordo.
Il rapporto tra sorelle: confidenze e segreti, gelosia e complicità, gioie e dolori, solidarietà e competizione.
Se si va d'accordo è uno dei rapporti più belli che esistano: su tua sorella potrai sempre contare. Ma se le cose non vanno bene, allora le cose si complicano notevolmente, si arriva a rancori che solo chi condivide la stessa storia può capire.
Esagero, sicuramente. Ma avendone una anche io posso ben descrivere la complessità della sorellanza, dal "mi presti quel vestito" a "se ti prendo ti distruggo".
In Di buona famiglia Isabella Bossi Fedrigotti ci racconta di Virgina e Clara, sorelle agli antipodi. Clara, tranquilla, solida, affidabile. Virginia, ribelle, irrequieta, passionale. La loro storia si srotola lungo tutto il novecento, dai primi anni del secolo fino ai tardi anni ottanta. Sullo sfondo di un rapporto conflittuale ma mai apertamente messo in discussione l'Italia che cambia, il crollo di un ceto  che non riesce ad affrontare i cambiamenti economici e sociali e si aggrappa alle convenzioni e alle apparenze, perdendo quasi tutto ma non i suoi riti.

Una villa nobiliare in Trentino, come mi immagino sia quella
nella quale si svolgono le vicende Di buona famiglia
Il romanzo è diviso in due parti. Nella prima, con stile colloquiale, il narratore ci racconta la storia del romanzo dal punto di vista di Clara, la sorella minore. Una vita vissuta sempre nel rispetto di famiglia e convenzioni, disillusa presto da un amore mal riposto, ma capace, in età adulta, di una sua ribellione ma mai di una vera rottura.
Nella seconda parte, invece, Virgina si racconta direttamente al lettore. Prevedibilmente il punto di vista sulle varie vicende è molto diverso. Molta della ribellione di Virginia è più apparente che sostanziale, aderente più al ruolo che la narratrice stessa ammette di aver interpretato tutta la vita che a un vero desiderio di rottura. La narrazione di Virginia è, però, sicuramente meno edulcorata di quella di Clara. Le ipocrisie, i rancori, i molti peccati di famiglia sono sciorinati senza scusanti. E non ne esce bene nessuno.
Fraintendimenti, gelosia e rancori scavano presto un solco tra le sorelle. Se avessero il coraggio di affrontarsi forse non sarebbe così profondo da dividerle, ma in questa famiglia si sceglie il silenzio.
Sulla terrazza (due sorelle) di Renoir
Dolori e sofferenze non vengono mai affrontati e rimangono in profondità a incancrenire fino a separarle completamente. E' Clara con la sua freddezza rancorosa o è Virginia che, non ammettendolo nemmeno con se stessa, volontariamente distrugge la relazione della sorella, la vera causa della loro separazione? O è solo che così le cose dovevano andare? Era quello il loro ruolo nella vita? E del resto sono ormai vecchie entrambe, ha senso scavare ora nella storia di famiglia, chiedere ragioni e motivazioni, cercare la verità?

Il libro è stato scelto da Rita. E' un libro "datato", essendo stato stampato nel 1991. Annarita e Monica lo avevano già letto anni fa, ma il suo ricordo era sbiadito. E' stato un libro di successo, all'epoca, e l'autrice ha avuto giusti riconoscimenti, incluso un paragone estremamente lusinghiero con Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
In qualche modo Di buona famiglia ricorda Il Gattopardo nell'essere uno spaccato di un epoca di trasformazioni profonde narrato attraverso le vicissitudini di una famiglia le cui tante apparenti virtù nascondono molti (troppi) vizi. Lo stile della Bossi Fedrigotti richiama, anche, quello del romanzo di Tomasi di Lampedusa, e questo non può che essere un complimento.
Tuttavia nel racconto la Bossi Fedrigotti omette molto, forse troppo, e avvenimenti che hanno importanza sono lasciati in sospeso. Uno in particolare, che viene rivelato a fine libro, lascia molti interrogativi nel lettore. E si rimane - forse giustamente - nel dubbio su quale sorella stia dicendo la verità, a quale delle due interpretazioni di queste vite parallele, purtroppo destinate a non toccarsi veramente mai, sia quella più vera.
Per tirare le fila il libro ci è piaciuto abbastanza: è scritto benissimo, la storia scorre e non è banale. Tuttavia abbiamo il dubbio che se ci chiederete un parere tra un paio di mesi avremo difficoltà a ricordare storia e libro :).

Ho trovato queste recensioni:
Monica, 3 stelle
Quel che appare non sempre è
Non ricordavo niente di questo libro già letto quasi 30 anni fa, all'epoca in cui uscì e vinse il Campiello. Ricordavo che mi era piaciuto, ma nulla di più. E temo che anche adesso sarà così. Perché il libro si legge facilmente ed è del numero giusto di pagine per non annoiare. La cosa che più mi ha convinto è la scelta dell'autrice di raccontare la vita di una famiglia attraverso due contrapposte visioni, che non si alternano di capitolo in capitolo come spesso succede in altri libri, ma dividono il romanzo esattamente in due parti. Due donne, due sorelle e apparentemente due personalità contrapposte. Ma è davvero così? Questo romanzo è l'ennesima conferma di quanto noi donne siamo le prime nemiche di noi stesse, di quanto incidano le apparenze, il non detto, l'ipocrisia cattolica e le false buone maniere. E intanto la vita scorre e fugge via e non resta altro che il rancore. Suggerimento: provare a leggere il libro partendo dal racconto di Virginia... potrebbe essere un interessante esperimento. 

Cristina, 3 stelle
Storia famigliare molto ben scritta, con qualche omissione. Due sorelle diversissime si raccontano (una in verità viene raccontata, colloquialmente, dalla voce narrante. L'altra parla in prima persona) e raccontano l'altra.
Tra omissioni, bugie e dolori mai affrontati a viso aperto dalla frizione si passa al baratro. Nemmeno la tarda età riesce a sanare un rapporto che, forse, non è mai esistito davvero, soffocato dal ruolo che ognuna delle sorelle si è vista affidare (o si è autonomamente presa) dalla vita.
Sullo sfondo le trasformazioni sociali e culturali del secolo scorso, anche se qui sono smorzate dai vincoli posti dall'essere Di buona famiglia, e dal peso delle convenzioni che questo impone su entrambe le protagoniste.


Per uno strano scherzo del destino la scelta del prossimo libro è ancora nelle mani di Rita che ha scelto I ragazzi Burgess di Elizabeth Strout.


Il prossimo incontro è fissato per martedì 6 marzo, alle ore 20.00, a casa di Zaffira.

A presto.

domenica 14 gennaio 2018

Vieni a Holt, Colorado.

Kent Haruf non è stato uno scrittore prolifico. Appena sei romanzi, uno pubblicato postumo.
Raggiunge la notorietà tardi, a quasi sessanta anni, con i romanzi del Ciclo della Pianura: Plainsong (Il canto della pianura), Eventide (Crepuscolo) e Benediction (Benedizione).
In Italia sono pure riusciti a pubblicarli in ordine sparso, quindi un po' ci si litiga, con la cronologia dei racconti, tutti ambientati nell'immaginaria cittadina di Holt, Colorado.
Il canto della pianura ci racconta un breve tratto di vita di alcuni abitanti di questa cittadina americana che poi tanto cittadina non deve essere. Ha l'ospedale, le scuole, la squadra di pallacanestro, negozi e locali. Ma non deve essere neppure così grande, perchè tutti sanno tutto di tutti, e nessuno si fa gli affari suoi.
Il racconto è semplice. Seguiamo per qualche mese la vita di Tom Guthrie e dei suoi giovanissimi figli, Ike e Bobby, dei Fratelli McPheron e di Victoria, diciasettenne che si ritrova incinta e sola. Non succede nulla di eclatante, in Plainsong, solo lo scorrere della vita, con le sue stagioni, i suoi ritmi, le (rare) gioie, i dolori. Il lavoro duro dei campi, gente retta che cerca di vivere con coerenza e onestà, molte solitudini che - timidamente - cercano di aprirsi agli altri.
Su tutto lo stile di Haruf che ci racconta gesti da nulla, ma è un nulla che nasconde dietro una patina di rassegnazione e malinconia sentimenti immensi e profondi, e una profonda pietà per questa sparsa umanità che cerca, comunque, di vivere.

Il libro ha generato una lunga e a tratti emozionante discussione. Non siamo state concordi nemmeno stavolta, ovviamente, ma raramente un racconto ci ha colpito tanto. E' un'America, questa, che non comprendiamo appieno, in cui una ragazzina incinta può venire abbandonata dalla madre, e con la stessa naturalezza accolta da una coppia di fratelli avanti nell'età. Un'America in cui ragazzini di nove e dieci anni sono lasciati in casa da soli molte ore, e possono girare, senza supervisione, per chilometri tra i campi, o uscire la notte, senza che adulto se ne accorda. Un'America senza tempo, e senza luogo, distante anni luce da quella che imperversa nelle nostre televisioni. Un libro che comunque consigliamo: leggete la trilogia, e anche Le nostre anime di notte, se potete. Fatevi un giro per Holt, Colorado. Probabilmente vi accompagnerà, con i suoi abitanti, per molto tempo.

Ho trovato ben tre recensioni, per ora:
Daniela, 3 stelle:

Un libro bucolico che mentre lo leggi ti mette in pace con te stesso, ti tranquillizza. Credo che abbia avuto tanto successo perché in fondo tutti vorremmo vivere in un posto dove ci si aiuta, dove possiamo lasciare le chiavi di casa sulla porta, dove i bambini vengono educati al rispetto ed all'autonomia, dove sporadici sono i “cattivi”. Che vengono dalla città (vedi il ragazzo di Victoria), o che vanno a vivere nella città (vedi la moglie di Guthrie), perché la città è cattiva e la campagna è buona.

Eppure... eppure...pur nella delicata e tranquilla scrittura questo libro non raggiunge il livello di “Le nostre anime di notte” nel quale in poche pagine escono tutti i sentimenti e le problematiche dei personaggi. Qui è più un descrivere la calma, laboriosa e placida vita della piccola città. Con poche scosse e anche minuscole di cosistenza. A volte inutilmente prolisso in alcune descrizioni del paesaggio o delle attività dei protagonisti.
Mi ha fatto tornare in mente i libri di Steinbeck e di Caldwell, ma con un minore impatto, forse anche frutto di anni sociali alquanto lontani, perchè mentre qui si inneggia al buonismo ovunque, là si denunciava la miseria e la durezza della vita di campagna.
Anche i nomi di alcuni personaggi secondo me sono “rubati” ai “grandi” degli anni '50: Guthrie, come Woody Guthrie, folksinger a cui anche Bob Dylan si è ispirato per le sue prime ballate, e autore di una autobiografia da cui fu tratto un bellissimo film “Questa terra è la mia terra”;  Victoria, come Vickie, personaggio di uno dei più bei libri di Calwell (Questa nostra terra).

Bella, bellissima, la prima vera conversazione tra i fratelli McPheron e Victoria, sulle questioni di mercato e i costi del grano, ecc.
Tre stelle per me. 

Monica, 4 stelle
Letto tutto d'un fiato. Storie di vita ambientate nello sconfinato mondo agricolo americano. Si potrebbe pensare a storie già lette e rilette, ma questo libro scritto in uno stile sintetico, ma allo stesso tempo preciso ed emozionante, mi ha coinvolto moltissimo. Consigliatissimo.

Cristina, 4 stelle
Pochi mesi a Holt, Colorado. Haruf ci racconta le vite dei fratelli McPheron, di Tom Guthrie e dei figli, di Victoria e di pochi altri. Sono sprazzi di vita, gesti contenuti, sentimenti mai espressi. Eppure arrivano al cuore. Molto bello e intenso, ma anche molto triste. I personaggi sono volontariamente sottotono, ma nella loro apparente rassegnazione si nasconde un modo di desideri, dolori, amore, amicizia e generosità, quella che ti fa aprire la porta di casa a una ragazzina, e a darle rifugio, quella che ti fa aprire il cuore, anche se sai che puoi soffrire. Bello. 

Ci si rivede martedì 6 febbraio, con Di buona famiglia di Isabella Bossi Fedrigotti, scelto da Rita.