martedì 4 ottobre 2016

La recensione di Claudio! Goffredo Parise e il prete bello.

Il prete bello è stato il libro di settembre. E' uno dei libri preferiti di Claudio (come potete vedere in questo post). Ora, tirare fuori da Claudio una recensione è come tentare di cavargli i denti, senza anestesia. Quando lo fa, però, merita sempre ascoltarlo e leggerlo.

Quindi, dato che è uno dei SUOI libri, gli ho estorto una recensione completa. Eccola qui.

In un’epoca come la nostra dove le categorie spazio-temporali si riducono a un click della tastiera di un pc, leggere Parise può risultare ad alcuni fastidioso, tedioso, insulso, oppure… illuminante.
Questo perché ci rivela un tempo della realtà e della vita, oltre che forma verbale, che poco frequentiamo: l’imperfetto.
Esso inizia nel passato ma non è ancora concluso, risulta sospeso quindi ed è il tempo del ricordo, della contemplazione, della poesia.
Anche all'epoca di Parise, mentre gli altri scrittori italiani (e non solo) erano concentrati sul presente, in prima linea i neorealisti, con Pasolini ad esempio, Parise scriveva all'imperfetto e rappresentava dunque un’anomalia letteraria.
Un’anomalia che spiegava però proprio quell'“imperfezione” che Parise cercava di definire come forma poetica in grado di rappresentare una realtà sospesa tra il ricordo e il presente, tra il sogno e la veglia, tra l'essere e il divenire.
Una realtà quindi non fissa, non fattuale, non propriamente dinamica ma che definirei piuttosto “vibrante”, ed è proprio l’eco di questa “vibrazione”che Parise cerca di catturare.
Come un abile fotografo, Parise coglie l’ attimo saliente dell azione, quello che è in grado di riassumerla meglio di qualsiasi commento o perifrasi.
Così i sentimenti dei personaggi non vengono descritti ma riassunti in uno scatto imprevisto, in un ammiccamento o contrazione del viso, in un atteggiamento o postura anomala e imprevista, come quando si passa velocemente davanti a uno specchio e ci si sente o sorprendentemente belli o tremendamente brutti.
Sembra quasi che i personaggi del libro passati attraverso la descrizione prismatica dell'autore assumano una terza, quarta dimensione che li deforma fino a confonderli con il contesto come in un quadro divisionista vibrante di luce e ombra: appare chiaro che a Parise non interessino le luci o le ombre dei personaggi e delle loro vicende ma il gioco del loro intreccio.
Così nel libro il paesaggio diventa intreccio di case e ballatoi, i tramonti sono invariabilmente color granatina, cioè fusione di rosso e viola, le vie sono intricati vicoli, i sentimenti crogiolo di opposte e vivide passioni in un altalena di euforia e depressione che trasporta le persone come su una giostra impazzita.
L’anomalia, l’imperfezione, la vibrazione (nel senso di “inquietudine”) sono infatti i tratti che meglio definiscono i personaggi del romanzo “Il prete bello”.
Anomalo è Don Gastone rispetto agli altri preti e rispetto al contesto in cui è catapultato, troppo bello, giovane, elegante.
Anomali, imperfetti e inquieti sono anche gli altri personaggi, che all’apparenza sembrano inappuntabili e invece covano frustrazione, rabbia, solitudine, aneliti soffocati, grettezza, meschinità e lascivia, e sono chiusi nella loro corazza, nel loro status, isolati e quindi “anomali”.
L’unico personaggio non “anomalo” nel romanzo è Sergio, il bambino che narra la storia (ovviamente alter ego dello scrittore) perché non contaminato ancora dalle velleità degli adulti. Egli infatti non si muove, non agisce, ma viene comunque trascinato suo malgrado nelle vicende paradossali degli altri protagonisti.
Sergio non è “anomalo” in quanto la sua azione è strettamente legata alla realtà, al soddisfacimento dei bisogni primari, a finire la giornata con un buon pasto e una sana dormita. 
La povertà è conoscere le cose per necessità diceva Parise.
Una specie di Lazzarillo de Tormes quindi che sfrutta le bramosie, gli appettiti e  i pruriti interiori degli altri a proprio vantaggio, un puer-senex che conosce la vita e è disilluso, pietra di paragone che al lettore fa sembrare  ridicola e tragica la farsa dei personaggi del libro.
Sarà proprio la millanteria, la velleità dei personaggi che  decreterà la loro fine: la vanità di don Gastone, la lussuria del sarto, la frustrazione della signorina Immacolata, la superbia del cavalier Esposito, il miraggio di una vita migliore (Cena).
Don Gastone, simbolo di virilità e eleganza, finirà i suoi giorni in un cronicario per sifilitici, deturpato nel fisico e nell'onore, la signorina Immacolata ripudiata si lascierà trascinare nell'oblio della vecchiaia, il cavalier Esposito precipita con tutto il suo onore e la sua latrina pensile, Cena sarà vittima del suo “miraggio” di libertà (la bicicletta). Eppure il senso del romanzo non si conclude nella giusta punizione della vacuità di una parte della società, ma piuttosto nell'amara constatazione che tale vacuità è insita nelle cose, che oggetti e uomini  vivono, si corrompono e muoiono e che il tentativo di opporsi ad essa é vano.
Tutto sotto questo sole è vanità sembra dire Parise, tutto si corrompe.
E le note di questa corruzione rieccheggiano in tutto il romanzo, nei luoghi, negli oggetti, nelle persone e nel loro animo.
Sono i ballatoi caliginosi, i vicoli bui e malsani, le acque limacciose degli stagni, le mobilia impolverate e cigolanti della signorina Immacolata che pare si lamentino della loro sorte, sono i calzini del prete perennemente rammendati o le toppe sui vestiti di Cena e Sergio.
Tutto è passeggero, ed è proprio questo “passaggio”che Parise ci racconta nel libro.
Don Gastone entra in scena come un San Luigi Gonzaga, un Robin Hood e
poi si ridimensiona, si annulla, trascinando con sè lo stuolo di ammiratori e spasimanti, novello pifferaio di Hamelin che però affoga anche lui con i suoi topini.
Parafrasando Cardarelli Parise ci dice
l’idea che ci facciamo d’ogni cosa è cagione che tutto ci deluda. E’ mal sognare il vero, architettar l’ignoto. Il male è nella nostra fantasia che perfetto e mirabile si finge ogni evento, è nell ansiosa attesa del giorno beato, del fortunato incontro che poi ci disinganna.
Ed è proprio il disinganno uno dei temi del libro, il disinganno più spietato, più amaro, presente non solo nelle aspirazioni, negli afflati dei personaggi, ma caratteristico di un’intera società repressa e animata da valori violenti ed effimeri.
L’altro tema del libro è la povertà, intesa sì come mancanza di mezzi ma soprattutto vista in antitesi alla povertà di sentimenti e di valori dei più, come legante sociale che accomuna le persone e ne esalta i legami di amicizia, di amore, di solidarietà; in definitiva, le rende più “vive”, insomma una povertà “ricca”.
Sono infatti i poveri, gli umili che nel libro emergono, perché agiscono insieme, socializzano, perfettamente coscienti della propria dignità, mentre i superbi sono chiusi nel loro astioso isolamento che li condannerà all'oblio.
Altro tema è la libertà intesa come libertà di espressione non solo dei propri diritti ma anche delle emozioni e dai vincoli repressi da  una società disumana e bigotta.
Il “prete bello” è dunque un libro che ci parla dell’importanza dei legami sociali e affettivi, di solidarietà, di umiltà, di compassione ed è quindi ancora molto attuale oggi in una società dominata dall’ego e dall’apparenza.

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