lunedì 5 ottobre 2020

Fiore di roccia

Se tu vens ca su ta' cretis, là che lôr mi àn soterât, al è un splaz plen di stelutis: dal gno sanc 'l è stât bagnât.
Par segnâl une crosute je sculpide lì tal cret: fra chês stelis nas l'arbute, sot di lôr jo duâr cuièt.
Cjol sù, cjol une stelute: je a ricuart dal nestri ben, tu i darâs 'ne bussadute, e po platile tal sen.
Cuant che a cjase tu sês sole e di cûr tu preis par me, il gno spirt atôr ti svole: jo e la stele o sin cun te.
Ma una dî, cuant che la vuere a sarâ un lontân ricuârt, tâl to cûr dulâ che iere stele e amôr, dut sarâ muârt.
Restarâ par me che stele che il miô sanc al â nudrît, per che lûsi simpri biele su l'Italie e l'infinît

 

Inizio questo articolo non con una citazione dal libro del mese ma con il testo, struggente, di Stelutis Alpinis di Arturo Zardini, dedicato ai caduti della Grande Guerra. 

Come spesso (se non sempre) accade, la canzone è dedicata agli uomini che hanno perso la vita al fronte, ed è rivolta alle molte donne che ne hanno pianto la scomparsa. Ma sul fronte friulano, durante il primo conflitto mondiale, hanno combattuto anche le Portatrici Carniche, che con le loro gerle trasportavano giornalmente rifornimenti e munizioni fino alle prime linee italiane. Alcune furono ferite, una, Maria Plozner Mentil (Timau, 1884 – Paluzza, 15 febbraio 1916), ha pagato con la vita il suo coraggio.

Con Fiore di roccia Ilaria Tuti porta a conoscenza del grande pubblico la storia delle Portatrici Carniche, in Friuli ancora molto amate, ma sconosciute ai più. Agata, la protagonista del romanzo, è un personaggio inventato, sintesi di tante nonne, bisnonne e anziane che portatrici lo sono state per davvero. Nella storia finzionale si inseriscono anche personaggi reali, come Maria Plozner, e alcuni eventi reali che l'autrice condensa, per necessità narrative, nei pochi mesi in cui si svolge il racconto, anche se nella realtà si sono svolte durante l'intero conflitto.

Ne esce un racconto poetico, di forza e resilienza femminile, nel quale la determinazione e lo spirito di sacrificio fanno da contraltare all'orrore della guerra cui queste donne partecipano per proteggere figli e anziani che abitano nelle valli ma anche per nutrire i soldati perchè:

Anin, senò chei biadaz ai murin encje di fan.»
Andiamo, altrimenti quei poveretti muoiono anche di fame.

Non so perchè mi sia più facile parlare dei libri che non mi sono piaciuti più di tanto rispetto a quelli che, invece, ho sorprendentemente amato o - peggio - mi hanno commosso come questo è riuscito a fare (almeno fino a quasi alla fine). Comunque questo è. Letto senza particolare interesse, anzi, pure di malavoglia, alla fine mi è sorprendentemente piaciuto. E non sono la sola. E' stato promosso praticamente da tutti, anche se in qualche punto la retorica del "tipicamente friulano" che possiamo condensare in: sacrificio, lavoro, fatica ci è parso un po' troppo rimarcata e il finale non ci ha convinto del tutto.

Lascio quindi la parola alle recensioni:

Stefania, 4 stelle
Un libro bello e profondo che racconta la vita delle portatrici carniche durante la prima guerra mondiale. Il personaggio principale è l'emblema di queste terre: le donne sempre al lavoro, che antepongono sempre gli altri a sé stesse, al limite dell'autolesionismo. Ho trovato poco verosimile la fine, in cui la protagonista e il soldato tedesco che curava in segreto a casa sua si consegnano al paese e vengono salvati. Mi sarei aspettata di più una fuga nella neve. L'istinto di protezione dell'altro secondo me in una situazione del genere avrebbe prevalso. Un happy end, condito con figli e nipoti, poco in linea con il resto del libro.

Monica, 2 stelle
Storia interessante, ma...
Questo libro è riuscito ad irritarmi dalla prima all’ultima pagina e mi duole scriverlo. Riconosco all’autrice il merito di essersi documentata scrupolosamente per raccontare la storia di queste incredibili donne di montagna, le portatrici carniche, ai più sconosciuta.
Stonata è la scrittura, parole troppo ricercate per un racconto in prima persona, seppur con protagonista una ragazza con la madre maestra e con molti libri in casa.
Mi è parso stridente utilizzare un linguaggio aulico per parlare di queste donne del mio Friuli, come Vigje quella che conoscevo io.

Cristina, 4 stelle
Bel libro, scritto con molta partecipazione dall'autrice. Il racconto è sentito, e si avverte chiaramente l'intento di far conoscere quanto fatto dalle Portatrici Carniche, che qui in Friuli sono molto amate, ma che al di fuori ben pochi conoscono.
Non riesco a dare cinque stelline per il finale, che avrei preferito diverso e avverto come un po' forzato, e per la lingua utilizzata. Mi spiego meglio: il libro è in prima persona, ambientato in un piccolo paesino della Carnia durante la Prima Guerra Mondiale, la protagonista, pur se figlia di una maestra, secondo me ben difficilmente avrebbe potuto parlare come nel libro, o almeno lo credo io.
In ogni caso, molto consigliato.

Non c’è pietra che non possa ruzzolare, i vecchi lo ripetono sempre.
Metti um piede davanti all’altro. Non staccare il secondo se la presa del primo non è ben salda.

Qualche notizia sulle Portatrici Carniche si può trovare nel sito di Donne in Carnia, e nel Museo della Grande Guerra a Timau.

Di seguito anche un breve intervento di Lindo Unfer, che per molti anni è stato direttore del Museo della Grande Guerra estratto dal film "Guerra in montagna" di Alessio Bozzer, prodotto dalla Videoest nel 2016.

 

Libro del mese di ottobre: Il circolo della fortuna e della felicità di Amy Tan.



giovedì 3 settembre 2020

Niente caffè per Spinoza

Un libro di per sé non è nulla se non trova qualcuno che lo fa vivere nella lettura

Maria Vittoria ha quaranta anni, un matrimonio che si regge “come una capannuccia fatta con gli stuzzicadenti”, e nessun lavoro. Vive a Livorno, e la città è quasi la terza protagonista del racconto, con il mare, il libeccio che entra nelle ossa e ti cambia l'umore, Villa Fabbricotti, la Terrazza Mascagni, il mercato generale, l'alternanza delle stagioni che sul mare si avverte dal rumore che fanno le onde quando si infrangono sugli scogli

Maria Vittoria (Marvi per far prima) ha un disperato bisogno affrancarsi da una vita passata ad adeguarsi agli altri, sottoamata dalla famiglia, dal marito, praticamente da tutti tranne che dal cane dell'insopportabile suocera - Aceto - che, da bravo canino, la ama, ricambiato.

Trova finalmente impiego come badante del professor Farnesi a cui dovrà pulire casa e preparare i pranzi ma soprattutto leggere. Il professore è infatti cieco, ma dotato della capacità di vedere le cose per come sono e di capire la vita molto migliore di tutti i normodotati che lo circondano. 

Il Professore, un po' scorbutico ma gentile, affronta la vita a colpi di citazioni, che rintraccia sicuro nei tanti libri che ha in casa, e che Maria Vittoria gli legge, il più delle volte senza comprenderne veramente il senso. Ma piano piano inizia ad apprezzare la Filosofia, a leggere per il piacere di farlo.

Livorno

Nel racconto, per la maggior parte dedicato a Maria Vittoria e al Professore, compaiono anche Elisa, figlia adorata ma sconclusionata del Professore, musicista sempre impegnata in giro per il mondo, che ogni tanto arriva in casa del padre con figlie e marito (inutile) al seguito, e una pletora di vicini, amici e ex allievi  che rendono sopportabile all'anziano professore la reclusione dovuta alla cecità e alla malattia.

Tra alti e bassi di umore e salute il tempo del professore su questa terra sta per concludersi, ma lo fa solo dopo aver aiutato Maria Vittora a diventare una persona più forte, in grado di affrontare la vita a testa alta e, forse, a trovare un nuovo amore. Ma prima di tutto a ripigliarsi Aceto.

Niente caffè per Spinoza è un libro che ci è piaciuto, e che - semplificando al massimo - si può riassumere con la parola "delicato". I drammi, che pure ci sono, sonno raccontati sottovoce, senza urla e strepiti, o tenuti un po' in sospeso, senza essere forniti di una vera spiegazione. Rimangono appena accennati i motivi della morte della moglie del professore, la storia della sorella emigrata in America, il rapporto di Maria Vittora con l'ignobile marito e con l'anaffettiva famiglia di origine, soprattutto con la madre, la figura evanescente ma sgradevole del marito di Elisa.

Villa Fabbricotti, a Livorno
In Elisa si possono riconoscere alcuni tratti autobiografici dell'autrice (anche lei musicista). Per stessa ammissione della Cappagli il professore è ispirato all'80% da suo padre, anche lui professore di liceo e anche lui ipovedente, ma speriamo vivamente non si possa dire lo stesso del marito (se c'è).

L'aspetto sicuramente che più ci ha colpito è stato il racconto - delicato e sensibile - del procedere della vita del professore verso la sua ineluttabile conclusione. E' lo svuotarsi dell'amata libreria dell'uomo, più che la descrizione dei tanti sintomi fisici, che ci fa capire che la fine è vicina. E quando la morte sopraggiunge, lo fa con una nota comunque positiva, come un lento accompagnamento alla fine naturale di una vita, vissuta con i suoi drammi e i suoi dolori, e le sue asperità, ma non priva di significato e soddisfazioni. 

Note dolenti ce ne sono? Certo che ce ne sono. Prima di tutto la mancata spiegazione di alcune parti del racconto (vedi sopra), e a seguire la trama sentimentale che abbiamo unanimemente ritenuto inutile, dato che non solo non aggiunge nulla alla storia ma non è nemmeno tanto credibile. Per ultimo (e dibattuto assai) ad alcuni di noi - in primis alla scrivente - le tante citazioni hanno un po' appesantito la lettura (ma è un problema della scrivente.)

E' un libro di buoni sentimenti? Si. E' un libro perfetto? No. Ma a fine lettura prevale un sentimento di tenerezza che abbraccia tutti i personaggi, e li accompagna verso un nuovo futuro. 

Prossimo libro: Fiore di roccia di Ilaria Tuti.


 

Ci si vede, Coviddi permettendo, alle porte dell'autunno.


martedì 1 settembre 2020

Le streghe di Lenzavacche

Tuttti cattivi presagi, figlio mio, ma tu eri nato, e pur squadernato da un vento di sfortuna, ti chiamai Felice, e decretai che quello era il primo passo per ribaltare il destino.

Un bambino cerca un maestro, e un maestro cerca un allievo, per le stradine di Lenzavacche, contrada di Noto, Provincia di Siracusa, in quel lembo estremo di Sicilia, sospeso tra terra e mare, in cui vivono ancora antiche tradizioni e ataviche paure.

Siamo nel 1938, in un Italia fascista che non tollera le impefezioni (o anche solo le deviazioni dalla normalità), e tuttavia Felice esiste, vive, nonostante il corpo informe, e le difficoltà. Figlio di una "strega" e di un vagabondo, amato oltre ogni cosa dalla madre, Rosalba,e dalla nonna, Tilde, che lo allevano cercando di dargli tutta la normalità possibile, ma anche dal farmacista Mussumeli, spirito libero anche lui in un tempo che libero davvero non era, che della piccola famiglia è protettore e confidente.

A qualsiasi orario rincorrevo per te la vita, e la vita fuggiva, si scansava lesta al tuo passaggio, era intuitiva e feroce, la vita, ti fiutava come una bestia pericolosa e inesorabilmente ti lasciava indietro. E dire che tu l'amavi pazzamente


Non manca di intelligenza Felice, e di quella capacità di amare la vita che  rende il nostro breve viaggio su questo mondo un dono infinito di meraviglia e felicità nonostante dolore e emarginazione. Anche se si ha il destino contro. Quel destino che nei secoli si è accanito contro la famiglia di Felice, e contro tutti gli spiriti liberi, vicini alla Natura e alla Terra, che hanno vissuto a Lenzavacche. Le streghe, insomma.

Le streghe di Lenzavacche è un libro poetico e delicato, che vive in fragile equilibrio tra aspetti realistici e favolistici di un racconto che si divide in due parti ben distinte, quella ambientata nel 1938 e quella in cui viene narrata la storia delle Streghe di Lenzavacche e del loro eterno penare sotto il giogo dell'ignoranza e della cattiveria umana.

Sarà il breve epilogo, ambientato appena dopo la Seconda Guerra Mondiale, a tirare le fila di passato e presente, e a rivelare i misteriosi intrecci del destino che uniscono Felice e la sua piccola famiglia al maestro Mancuso e al suo misterioso dolore.

Il libro ci è piaciuto molto. Purtroppo ha subito anche lui i mesi di lockdown, e l'impossibilità di incontrarci per parlarne. Così - da perfetto gruppo di lettura in tempo di Corona Virus - ne abbiamo parlato a spizzichi e mozzichi, un po' una sera, un po' durante una riunione via Skype.

Un peccato, perchè il messaggio del racconto, fortemente dalla parte delle donne e del "diverso" (diverso da chi, poi) è un inno all'accettazione, alla capacità di amare nonostante le inevitabili conseguenze, al coraggio di andare contro i limiti imposti dalla società e i pregiudizi del pensare comune.

Oberon, Titania and Puck with Fairies Dancing di W. Blake
Oberon, Titania and Puck with Fairies Dancing di William Blake
Un inno, anche, alla fantasia e alla lettura, ai libri e alla scuola. Felice desidera solo andare a scuola, leggere, imparare. E alla fine ce la farà, grazie all'amore della sua famiglia, e di un maestro non omologato, in barba alla gerarchia e alla burocrazia (che diventa, ironicamente, il grimaldello necessario a fargli ottenere quello che vuole).

Non un libro perfetto (la seconda parte è molto meno convincente della prima) ma sicuramente godibile e con un bel messaggio positivo. Uno dei pochi libri da noi letti che avrebbe guadagnato dall'essere  un centinaio di pagine più lungo.

Trovata una sola recensione, di Cristina (4 stelle):

Mi è piaciuta molto la prima parte, decisamente meno la seconda. Ergo quattro stelle. Peccato perché il racconto "recente" è bellissimo.

Prossimo libro: Niente caffè per Spinoza di Alice Cappagli.


 

 

giovedì 27 agosto 2020

Il birraio di Preston

Qual era, in Sicilia, la proporzione delle cose che succedevano per scangio rispetto a quelle che invece accadevano senza scambio di persone o cose? ....
E nasceva magari il dubbio che tutto quello scangia scangia fosse un finto scangia scangia, che non c’era stato nessun errore, che lo scangiamento era stato solamente un alibi, addirittura un vezzo. E allora di che cosa poteva ridere per uno scangio più finto di quelli finti, gente che al contrario nello scangio quotidiano viveva?

A occhio e croce Andrea Camilleri è uno dei più letti e tradotti autori italiani moderni. Potrebbe anche essere il più letto e tradotto, ma non ci metterei la mano sul fuoco, pare che la quadrilogia dell'Amica geniale sia stata un successo straordinario, anche nella trasposizione televisiva (altro aspetto che accomuna i due autori, e se per un giallista essere "telefilmizzato" non è poi così strano, lo stesso non si può dire per i quattro libri della Ferrante).

Questa premessa per dire che non era possibile che non avessimo messo nessuno dei tanti libri del Maestro in calendario per il club, soprattutto data la recente scomparsa dell'autore. Ed eccoci qui, con Il birraio di Preston, uno dei libri che non vedono come protagonista il celeberrimo Commissario Montalbano, ma ambientato comunque nell'immaginaria cittadina siciliana di Vigata, anche se più o meno un secolo prima.

Il  romanzo,  edito nel 1995, prende spunto da un fatto reale (è documentato nel lavoro Inchiesta sulle condizioni sociali ed  economiche  della  Sicilia  (1875-1876),  fonte  da  cui  l’autore  ha  più  volte  attinto per  la  creazione dei suoi romanzi). 

La vicenda originale parla di tumulti e delitti seguiti alla proma teatrale dell'opera lirica Il birraio di Prestondi   Luigi   Ricci,   fortemente   voluta   dal   prefetto   Fortuzzi   e   aspramente avversata dalla popolazione locale). Il luogo dell'azione, nella realtà storica  Caltanissetta,  diventa  Vigàta,  e  il  nome  dell’ottuso  e  odiato   burocrate "nordico" si   trasforma   in   Bortuzzi. 

Il romanzo, pieno di colpi di scena, coincidenze, giravolte, corna e morti ammazzati, ha una struttura "libera" ovvero il lettore potrebbe, volendo, leggerlo nell'ordine che preferisce, saltellando qua e là tra i capitoli che non hanno - se non alla conclusione - una struttura cronologica. Nel Birraio di Preston, inoltre, Camilleri sperimenta moltissimo anche con la lingua. Il "siciliano - italiano" di questo racconto è molto più ricco (e onestamente faticoso) di quello di Montalbano. Visto che alcuni personaggi sono toscani, e che l'autore cerca la veridicità dialettale, a difficoltà si aggiunge difficoltà. Tra siciliano, toscano, italiano basso, alto, burocratese e chi più ne ha più ne metta si ringrazia che il racconto sia divertente perchè in alcune parti è ostico.

Vostra Eccellenza mi permette di parlare latino?
Il prefetto si sentì bagnare la schiena da un rivolo di sudore. Fin dal momento che si era imbattuto in rosa-rosae aveva capito che quella era la sua vestia nera.
Ferraguto, in confidenza, a scuola non ero mi'a bravo.
Don Memè allargò il sorriso leggendario.

Ma che ha capito. Da noi, in Sicilia, parlare latino significa parlare chiaro.
E quando volete parlare oscuro?
Parliamo in siciliano, Eccellenza. 

Questo libro era la nostra scelta di aprile, ma come ben si sa il Covid ci ha messo i bastoni tra le ruote e tutti gli incontri di persona personalmente sono saltati.

Come ogni bravo club di lettura al tempo del Coviddi, quindi, di questo libro abbiamo parlato via Skype, e ci ha trovato piuttosto concordi sia nel plauso alla capacità di Camilleri di creare personaggi a tutto tondo con poche sapienti pennellate e alla sua abilità di sceneggiatore (tutti i tanti fili del racconto trovano, alla fine, la perfetta collocazione) sia nell'aver trovato a tratti non proprio agevole la lettura. 

La struttura e il linguaggio sono interessanti, e Camilleri (non ancora celeberrimo) dimostrava in questi primi libri la propria volontà di sperimentare, forse anche di sfidare il lettore a superare alcuni dei suoi limiti. Anche nel racconto, apparentemente divertente e leggero, in realtà non privo di ingiustizie, violenze e sopraffazioni (vedasi l'ultimo capitolo).

Scena da La stagione della caccia di A. Camilleri

Un libro che quindi ci è piaciuto leggere, e che consigliamo, in attesa della probabile trasposizione televisiva.

Ho trovato due recensioni. La prima, di Monica, valuta il romanzo 3,5 stelline:
Nonostante io abbia faticato un po' nell'immediata comprensione del dialetto siciliano che giustificano la mezza stellina in meno, questo è un gran bel libro.
Vigata, in una sorta di realismo magico alla siciliana, far west alla nostrana, ironia che strappa sorrisi, ma avvilisce perché in fondo in fondo molte cose funzionano ancora così.

La seconda è di Cristina che al racconto appioppa tre stelline.
Piacevole, anche se difficoltosa, lettura. Ho trovato ostico il "sicilitaliano" che qui è ben più tosto che nei tanti Montalbano che ho letto. Brilla il Camilleri sceneggiatore, e quello che con poche parole tratteggia storie e personaggi. La storia si amplia e dilata in infinite sottotrame che - onore al Maestro - alla fine trovano tutte la giusta collocazione. L'apparente divertimento del racconto si stempera in un capitolo "postumo"'che fa tristemente capire come sia facile manipolare i fatti e darne una versione corrotta e bugiarda. Sotto i lustrini del racconto, un massaggio per me triste e pessimista.

Per chi volesse approfondire esiste un sito che i tanti fan di Camilleri hanno dedicato all'autore. Tra il tanto materiale disponibile c'è anche il Glossario al Birraio di Preston, davvero molto interessante, da cui ho attinto alcune delle informazioni che trovate nell'articolo.

Prossimo libro: Le streghe di Lenzavacche di Simona Lo Iacono.










mercoledì 26 agosto 2020

Il treno dei bambini

Ma che me ne faccio io della speranza? Io la speranza la tengo già nel cognome, perché faccio Speranza pure io, come mia mamma Antonietta. Di nome invece faccio Amerigo. Il nome me l’ha dato mio padre. Io non l’ho mai conosciuto e, ogni volta che chiedo, mia mamma alza gli occhi al cielo come quando viene a piovere e lei non ha fatto in tempo a entrare i panni stesi. Dice che è proprio un grand’uomo. È partito per l’America per fare fortuna.

Incontriamo Amerigo, il piccolo protagonista, mentre segue la madre attraverso i vicoli di Napoli. Ha le scarpe che non sono della sua misura, ma le porta con orgoglio lo stesso. Della scomodità ha fatto un gioco, e le conta sulle persone che incontra per strada. Non sa bene dove la madre lo stia portanto, tuttavia dall'atteggiamento di Antonietta capisce che sta per succedere qualcosa che lo riguarda e che non sarà tanto bella. La madre, infatti, gli compra qualcosa da mangiare, senza che lui chieda nulla. 

Amerigo ancora non lo sa, ma sta per salire su un "treno della felicità", uno dei tanti treni che tra il 1946 e il 1952 portarono circa 70.000 bambini dal Mezzogiorno all'Emilia Romagna, Toscana e Umbria, per essere ospitati dove almeno da mangiare c'è.

Un esempio di solidarietà nazionale straordinaria, di cui poco si parla. Recupero dal sito dell'ANPI: A Milano Teresa Noce, battagliera dirigente comunista e partigiana da poco rientrata dal campo di Ravensbrük, intuisce che solo un gesto di solidarietà può risolvere almeno temporaneamente la drammatica situazione di bisogno dei bambini. Con ciò che rimane dei Gruppi di difesa della donna, poi confluiti nella nascente Udi – Unione donne italiane, la Noce chiede ai compagni di Reggio Emilia, realtà prevalentemente agricola e quindi con maggiori risorse alimentari rispetto a Milano, di ospitare in quei mesi alcuni bambini. «La risposta fu al di là di ogni legittima speranza. – Si legge nella prefazione di Miriam Mafai a “I treni della felicità” – Tanto generosa che si decise di estenderla e radicarla nel Mezzogiorno (…) Furono trasferiti così, nei due inverni immediatamente successivi alla fine del conflitto, alcune decine di migliaia di bambini che lasciarono le loro famiglie per essere ospitati da altrettante famiglie contadine, nei paesi del reggiano, del modenese, del bolognese. Lì vennero rivestiti, mandati a scuola, curati».Ma quelle donne, che avevano tessuto la Resistenza e svezzato la Repubblica, non si fermarono raggiunto il loro primo obiettivo. Così, dal 1945 al 1952, anni duri per tutto il Paese, furono ospitati nel centro-nord ben 70.000 bambini, grazie anche all'appoggio del Pci, dei Cln locali, delle sezioni Anpi, delle amministrazioni e della popolazione in genere. Un numero sorprendente.

Da un giorno all'altro Amerigo si trova catapultato in un'altra Italia, diversa per lingua, clima, sapori, che lo spaventa ma che dopo il primo momento di reciproca diffidenza lo accoglie senza grossi traumi. Antonietta, la madre, è una donna indurita dalla vita e dalle difficoltà, che sta tirando su il figlio da sola. L'opposto rispetto alla famiglia allargata e unita in cui Amerigo viene ospitato. E' una famiglia contadina, ma non ha problemi a mettere il pane sulla tavola. Tutti devono contribuire all'andamento della casa, ma c'è amore, e accettazione, e cura.

Amerigo si adatta bene alla nuova vita anche se sente la mancanza della madre. Impara persino a suonare un po' il violino, e scopre di avere talento. Ma il tempo passa, ed è ora di tornare a casa. Un altro distacco doloroso, mitigato dalla promessa di mantenersi in contatto, e dall'idea di tornarea casa.

Ma i mesi passati a Modena hanno lasciato comunque il segno. Prima di partire Amerigo era contento di come viveva, ora è in grado di fare paragoni, e il suo mondo entra in crisi. E' diviso a metà: da una parte la madre e la vita come la ricordava, dall'altra una famiglia che gli ha dato calore e cure e può dargli di più, soprattutto la musica, rappresentata dal violino che gli hanno regalato e di cui tanto è orgoglioso.

Il rapporto con la madre, già pieno di asperità per la durezza e la reticenza della donna, si incrina ulteriormente sotto il peso di malintesi e fraintendimenti che hanno il loro picco quando Amerigo scopre che Antonietta ha venduto il suo violino e gli ha nascosto le lettere che arrivavano dal nord.

E' la rottura, Amerigo scappa. Stavolta prende il treno da solo, e torna a Modena.

L'ultima parte del libro (quella forse meno convincente) ci porta nel 1994. Amerigo adulto torna a Napoli per il funerale della madre, che non ha mai veramente capito o perdonato. Da adulto si volta indietro e cerca di dare un senso alla sua vita, sgarbugliando il mistero di Antonietta e del suo vero padre, e rialacciando i rapporti con un fratello minore di cui solo ora si palesa l'esistenza. Cerca forse un riscatto da se stesso e dalla sua incapacità di capire la madre ma anche da adulto tanto, troppo, resta in sospeso.

  Chi ti manda via ti vuole bene? -
Amerí, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi intrattiene.

Il libro di Viola Ardone ci è piaciuto molto.

Il protagonista bambino è realistico, e simpatico. E' ingenuo ma diretto e sveglio, tuttavia non abbiamo trovato le tante (troppe) forzature cui i personaggi infantili sono sottoposti nella maggior parte dei libri. Il racconto, inoltre, ci ha fatto scoprire un avvenimento che era sconosciuto a molte di noi, dimostrazione di una Italia che riusciva ancora a fare grandi gesti collettivi di solidarietà, che sembra scomparsa sotto il peso della attuale crisi economica.

Il libro scorre veloce e piacevole, soprattutto nella prima parte. La seconda, quella raccontata dall'Amerigo adulto, ci ha forse convinto meno, ma nulla toglie a un racconto delicato e interessante, che offre molti punti di riflessione e riesce a non scadere mai nel retorico e nel melenso.

Ho trovato solo la recensione di Cristina. 

Mi è piaciuta tantissimo la prima parte, mentre la seconda mi è parsa un po' tirata via. Il registro più "adulto" della conclusione come stile è nelle mie corde ma anche qui, come nella seconda parte, il racconto resta un po' sospeso, molto viene omesso. Mi sarebbe piaciuto conoscere meglio la figura della madre del protagonista, e un po' più di dettaglio sulla sua vita dopo che torna a Modena, ma il racconto sorvola su entrambi gli aspetti.
Resta comunque un libro molto bello (secondo me), soprattutto nella prima parte la voce di Amerigo è più chiara e credibile.

All'argomento "treni della felicità" sono stati dedicati anche un libro (I treni della felicità di Giovanni Rinaldi, Edizioni Ediesse da cui è stato tratto anche un lavoro teatrale) e un film-documentario per la regia di Alessandro Piva, distribuito da Cinecittà Luce e diversi programmi televisivi.  

Qui sotto un breve documentario che ho trovato su youtube.


Libro di prossima lettura Il birraio di Preston di Andrea Camilleri.



 


venerdì 6 marzo 2020

Hotel silence

Auður Ava Ólafsdóttir
Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro?

Jonas è un uomo di mezza età. Ha divorziato da poco e la ex moglie ha pensato bene, durante le procedure di separazione, di rivelargli che l'unica amatissima figlia non è figlia sua. Ha perso il padre molti anni prima e la madre è ricoverata in casa di riposo, vittima della vecchiaia e della demenza.
Jonas è in una fase cruciale della sua vita, in cui si sente vuoto e inutile, privo di motivazioni. Così privo di motivazioni che sta pensando seriamente a porre fine alla propria esistenza, al suicidio.
Lo pianifica, arriva persino a chiedere al vicino di casa un fucile (e mi chiedo che vicini ci siano in Islanda che tu gli chiedi un'arma e te la danno senza fiatare). Quello che lo ferma è l'idea di obbligare la figlia a trovare il suo corpo. Jonas è un padre, un figlio e un compagno (anche se ex) responsabile e amorevole. Per quanto in piena crisi rimane una persona attenta e protettiva, un uomo che per inclinazione preferisce riparare le cose, che distruggerle.
Il trauma, il dolore, il bagaglio di sensi di colpa Jonas alla figlia non vuole lasciarli. E quindi Jonas acquista il primo biglietto aereo disponibile per un posto sperduto, appena uscito dalla guerra, dove la sua morte scomparirà nella statistica di un paese devastato. Parte in tutta fretta, armato di pochissimo vestiti ma portando con se una cassetta degli attrezzi.
E sarà proprio riparando tubi e supellettili all'Hotel Silence che Jonas ricomincierà a vivere.
Ci sono ancora.
Sono ancora qui

Hotel Silence è un libro carino, scritto con uno stile asciutto e misurato. Jonas non è uomo di molte parole, probabile somigli alla sua creatrice letteraria che pure lei non si dilunga in spiegazioni e descrizioni, tanto che dove sia ambientata la parte dedicata alla "rinascita" di Jonas non ha nemmeno una localizzazione geografica chiara. 
Ex Yugoslavia, centro America, qualche sperduto villagio africano? Chi lo sa. E del resto non ha importanza; in fondo tutti i paesi in cui c'è stata la guerra hanno le stesse ferite e le stesse cicatrici.
Anche Jonas ha le sue ferite, e le guarisce occupandosi prima delle stanze dell'Hotel e dei vicini, poi degli altri.

Una morale facile e tutto sommato favolistica: dedicati agli altri e guarirai le tue ferite, che non ci ha del tutto convinti.
Il desiderio di morte ha motivazioni profonde, che ben difficilmente guariscono così in fretta.
Però il libro scorre veloce, e ha un finale lieto.
Una lettura tutto sommato piacevole, anche se ha il sapore della favoletta, un po' troppo costruita e un po' troppo scontata. Una buona idea che si perde, e avrebbe potuto essere molto meglio.

Una sola recensione, di Cristina:
Libro discreto, che parte bene e poi si perde parecchio. Un racconto gradevole ma non del tutto riuscito. Lo salva il messaggio decisamente positivo, anche se la tematica avrebbe forse meritato qualcosa di più.

 Libro del prossimo mese: Il treno dei bambini di Viola Ardone:

   
Ci si vede martedì 10 marzo 2020.

domenica 23 febbraio 2020

Il gioco dei regni

Clara Sereni, 1946-2018
Mimmo vide una murrina più piccola delle altre, una minuscola sfera appena appiattita con dentro un mappamondo quasi invisibile. Non volle che gliela incartassero, se la mise in tasca e il vetro prese il calore della mano. Della geografia Mimmo aveva, all’epoca, un’idea vaga, ma pensò che avercelo in tasca, il mondo, era un buon modo per non lasciarselo sfuggire.

Avere una famiglia così "importante" alle spalle deve essere sia un peso che una benedizione. 
Sarà stato per questo che Clara Sereni ha voluto scrivere Il gioco dei regni? Per rielaborare e forse ridimensionare almeno un po' l'importanza della sua famiglia la cui storia ha incrociato così pesantemente la Storia con la esse maiuscola?
Il gioco dei regni racconta la Famiglia Sereni più o meno dalla fine del 1800 agli anni '60 del Novecento, ma si concentra nel periodo tra le due guerre mondiali. 
Emilio Sereni
Il racconto è ricavato da diari, lettere, appunti dei vari protagonisti, affiancati da documenti che l'autrice ha scovato in uffici, biblioteche e archivi italiani e esteri, incluso Israele, ove vivono ancora ora i discendenti dei fratelli Sereni. 
Una messe di informazioni di "prima mano" che sono sia la forza che la debolezza di un racconto che rimane intimo pur intrecciandosi con gli avvenimenti principali del secolo scorso.
L'autrice, infatti, rimane molto fedele ai documenti trovati, inventa ben poco. Il racconto ha quindi il pregio di essere asciutto e rigoroso, ma anche di mancare - a volte - di quella profondità che ne avrebbe fatto un racconto universale. E anche di capicità di coinvolgere, specie all'inizio, dove brevi scene di vita familiare dedicate ai vari protagonisti rischiano di far perdere il filo del racconto.
Gli avvenimenti scorrono veloci, ma fatti anche importanti come la partecipazione di Emilio Sereni (poi morto suicida) alla Grande Guerra è ridotta a poche pagine, mentre la storia di Xenia, la madre dell'autrice, ne occupa una quota rilevante.
E' infatti sulla madre Xenia e sul padre Emilio, sulla loro vicenda personale e politica, che si concentra il racconto. Oltre che sull'amore tra Mimmo (così era chiamato Emilio Sereni in famiglia) e Xenia (autrice di un autentico best seller dell'epoca: I giorni della nostra vita, scritto con lo pseudonimo di Marina Sereni) il libro lascia ampio spazio al difficile rapporto tra Xenia e la madre che nemmeno la malattia riesce a migliorare.
Ti voglio bene anche se non ti ho mai capita. 

Romanzo familiare e corale, è un libro in cui pur raccontando i tre fratelli Sereni, spiccano le figure femminili.
Alfonsa Sereni (che incontriamo a fine '800, ad acquistare il corredo) e la sorella Ermelinda; Xenia, rivoluzionaria nella Russia zarista, innamorata di Lev che sarà giustiziato dal regime e la lascerà sola e vagabonda, irrequieta e incapace di capire e di farsi capire dalla figlia. Xenia Sereni, in cui la passione per la politica e l'amore per Emilio ardono così tanto che dimentica le figlie. Le serve di casa, Dalinda e Finimola; Le tre figlie di Xenia e Mimmo, tra cui l'autrice, che scompaiono nel racconto, fagocitate dalle figure del padre e della madre, anche quando chi racconta è una di loro.
Enzo Sereni
Non sappiamo se Clara Sereni sia riuscita a fare pace con questi genitori per i quali prova ammirazione ma le cui figure sembrano lontane. Col padre probabilmente si, con la madre forse non tanto, ma alle madri spesso non perdoniamo assenze e mancanze che ai padri lasciamo passare. Con la nonna Xenia sicuramente si: un viaggio in Israele dà il via non solo al libro, ma soprattutto a una riscoperta di questa donna complicata che tanto ha segnato la madre. 

Ci è piaciuto Il gioco dei regni? Si, decisamente. Un po' di confusione all'inizio, ma la lunga carellata di avvenimenti tra la storia italiana tra le due guerre e il periodo post fascismo sono ben descritti e interessanti, abbastanza avvincenti da spingerti a cercare altre informazioni e ad approfondire la storia di una famiglia che è stata per molti aspetti emblematica e rappresentativa di tutta la nostra, di Storia. 

"Ecco, ora vi condurrò nel luogo stabilito; poi tornerò indietro, mi farò un goccetto, e uscirò a suonarle agli ebrei" Io: "Bere, perché?" Con semplicità, tranquillo: "E come si fa a far cose del genere, senza farsi un goccettto!"

Dimenticavo: perchè Il gioco dei regni? E' un gioco inventato dai fratelli Sereni, un gioco di ruolo solo loro, che rappresenta bene il rapporto di affetto così stretto tra i fratelli, un rapporto che solo la morte spezza definitivamente. Un rapporto che la vita e le decisioni separerà ma non distruggerà mai davvero.

Libro del prossimo mese: Hotel Silence di