mercoledì 22 marzo 2017

Nel cuore dell'enigma mi incamminerò oggi.

Non l'ho ancora detto al mio giardino
Per paura che mi possa soggiogare.
E non ho affatto la forza ora
Di rivelarlo all'Ape
Non lo nominerò per strada
Perché le botteghe mi guarderebbero stupite
Che una così timida - così ignorante
Abbia la sfacciataggine di morire.
I pendii delle colline non devono saperlo -
Dove ho tanto vagabondato -
Né dire alle amate foreste
Il giorno che me ne andrò -
Né mormorarlo a tavola
Né sbadata per la via
Far capire che nel cuore dell'Enigma
M'incamminerò oggi


(Emily Dickinson)

Al giardino ancora non l'ho detto, di Pia Pera (1956-2016), inizia con la poesia di Emily Dickinson a cui chiede in prestito il titolo. E' un libro triste, come tristi sono i versi della poesia, come sono tristi tutti gli addii.
Racconta il lento declino dell'autrice, dai primi segni della malattia fino alla quasi totale immobilità degli ultimi giorni di vita di Pia Pera. La narrazione  si ferma appena prima della fine, quando ancora qualche movimento è ancora possibile, ma quando ormai non vi era più alcuna speranza non solo di guarigione, ma anche di rallentare il male che, pochi mesi dopo la pubblicazione del libro, si porterà via l'autrice.
Si può giudicare un libro come questo? E con che metro lo dobbiamo fare, come diario di un'esperienza definitiva come quella della malattia che non consente guarigione, o come si giudica ogni altro libro che, in ogni caso, l'autore stesso ha dato alle stampe?
E' stato più su questo che abbiamo discusso che sul libro in sé che, onestamente, non ci è piaciuto in modo particolare. 
Avulso dal suo essere testimonianza di una terribile malattia ci è parso, nonostante il buon inizio, noioso e ripetitivo, ricco dal punto di vista della scrittura, ma freddo, come se tra se stessa e il lettore la Pera avesse messo un filtro, un qualcosa (educazione, cultura, carattere o altro non lo possiamo sapere) che non le permette di far arrivare, completamente, la sofferenza che indubbiamente provava.
Filtrato attraverso le esperienze personali, invece, rimane un diario di una sofferenza, ingiudicabile come solo la testimonianza di una tragedia e di un dolore così profondo possono essere.

Ho trovato solo due recensioni del libro, purtroppo entrambe non molto positive:
Stefania, 2 stelle
Un libro autobiografico in cui l'autrice racconta il suo lento morire per Sla (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Conscia del suo quasi ineluttabile destino, l'autrice ci racconta il calvario fra medici e ciarlatani, illusioni e ricadute, amici veri che vengono fuori al momento del bisogno e falsi amici, che spariscono. Il tutto porta a una evoluzione interiore, al mettere in dubbio le sue certezze, alla capacità di vedere l'attimo e la sua bellezza, in un fiore, un dettaglio. Tuttavia il libro è scritto in modo molto accademico e distaccato, con i nomi eventualmente in latino di piante poco note, citazioni letterarie, nomi di amici e conoscenti che sicuramente vogliono dire qualcosa per l'autrice, ma non per il lettore. L'autrice stessa ci dice che invece le parti troppo personali, in cui suppongo racconti dei suoi veri sentimenti, sono state tagliate. Così il libro rimane una cosa a metà fra un trattato di botanica e un diario personale fortemente censurato, deprimendo il lettore senza riuscire a
trasmettere molto.

Cristina, 2 stelle
Non so, l'ho trovato freddo e distaccato. In un certo senso inibito, o troppo cerebrale. L'autrice racconta, in maniera per me clinica, il decorso della sua malattia, una di quelle che non solo non lasciano scampo, ma ti imprigionano lentamente all'interno del tuo stesso corpo, fino alla purtroppo inevitabile fine che è arrivata nel 2016, pochi mesi dopo la pubblicazione del libro.
Tra medici e cure varie (tutte inutili, alcune strampalate) il mondo dell'autrice si riduce prograssivamente, fino a costringerla a rinunciare alla cura del giardino cui si era dedicata quasi completamente per molti anni. Di quello che deve essere stato un calvario straziante mi è arrivato poco, secondo me per una scelta precisa dell'autrice, che censura o comunque lima molto quanto scrive. Purtoppo così ha limato anche la portata emotiva e il senso profondo che avrebbe potuto avere questo libro che, invece, almeno in me, non ha smosso quasi nulla. 


Libro del mese di aprile è: L'ibisco viola di Chimamanda Ngozi Adichie.
 Ci vediamo martedì 11 aprile, sempre alle 20.00, sempre a casa di Zaffira.

domenica 5 marzo 2017

Il mio 2016 in libri... Monica.

Sto facendo una riflessione fra me e me su quale sia stato il libro letto nel corso del 2016 che mi è piaciuto di più. E non ho il minimo dubbio: "Stoner" di John Williams. Il più mediocre ed insulso? "Quartetto" di Jean Ryhs. Per gli autori italiani, un romanzo da me sempre snobbato, ma che invece ho letto piacevolmente: "Il prete bello" di Goffredo Parise...
Tutto qui. Tanto per dire qualcosa, così, ogni tanto....


Stoner è il racconto della vita di un uomo tra gli anni Dieci e gli anni Cinquanta del Novecento: William Stoner, figlio di contadini, che si affranca quasi suo malgrado dal destino di massacrante lavoro nei campi che lo attende, coltiva la passione per gli studi letterari e diventa docente universitario. Si sposa, ha una figlia, affronta varie vicissitudini professionali e sentimentali, si ammala, muore. È un eroe della normalità che negli ingranaggi di una vita minima riesce ad attingere il senso del lavoro, dell'amore, della passione che dà forma a un'esistenza.

Ma chi è Stoner?
Il libro narra la vita di Stoner. Ma chi è veramente Stoner?
Un uomo come tanti che per quieto vivere si lascia scorrere addosso le cose negative della vita senza reagire?
Oppure un uomo che nonostante tutto riesce a trovare rifugio nelle sue passioni: la letteratura e l’insegnamento opponendosi alla vita segnata che lo voleva contadino?
Potrebbe essere un anti eroe o eroe perché decide di non partire per la guerra, un uomo per bene che resiste coraggiosamente alle tirannie di una moglie affetta da disturbi bipolari, un papà meraviglioso che accudisce la figlia da piccola, ma poi incapace di “riacciuffarla” quando da grande scappa volontariamente da casa, diventando alcolizzata. Testardo in qualche occasione, passivo in molte altre.
William Stoner: un uomo, con tutti i suoi umani limiti. Ma quanta rabbia provocano i suoi "non importa, va bene così".
L’autore non prende mai posizione, semplicemente racconta la vita di quest’uomo e lo fa decisamente bene. Un libro pervaso di malinconia da cui ognuno può trarre le sue conclusioni/riflessioni. Da leggere e da leggere fino alla fine perché le ultime pagine sono meravigliose.

Nel 1953 Goffredo Parise si trasferisce a Milano, dove ha trovato lavoro presso un grande editore. Ha pubblicato due romanzi che pochi conoscono – Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza – e ha il vago desiderio di scriverne un terzo che lo diverta e commuova «tanto da cacciare il freddo e la solitudine»: un romanzo «con molti personaggi allegri», ma soprattutto «estivo». Uscito nel maggio del 1954, Il prete bello riscuoterà un clamoroso successo. E rileggendolo oggi, quando ormai le etichette impugnate per celebrarlo o denigrarlo sono alle nostre spalle, ci accorgiamo che il suo segreto sta tutto in quella genesi: nella festosa eccentricità dei personaggi che popolano un labirintico e fiabesco caseggiato nella Vicenza del 1940, e di colui che saprà stregarli tutti: don Gastone, il «prete bello». Personaggi quali la ricca signorina Immacolata, con i suoi strani cappellini a piume e l’occhialino d’oro cesellato; le Walenska, madre e figlia, che si scaldano ingrandendo con una enorme lente l’unico raggio di sole che al tramonto penetra nella loro stanza; il cav. Esposito, che tiene sotto chiave le cinque figlie concupiscenti; Fedora, la cui rigogliosa natura si spande dagli occhi e da tutto il corpo, quasi che «dai pori uscisse un polline dolciastro»; e la cenciosa banda di ragazzi truffaldini e sentimentali che nei vicoli e sotto i portici cercano ogni giorno di sopravvivere trasformandosi in ladri, ruffiani e mendicanti – in particolare Sergio, il narratore, e il suo amico Cena. In tutti loro, nelle vene e nel sangue, l’atletico, elegante, vanesio don Gastone si infiltra come una passione oscura, violenta ma capace di dare improvvisamente vita – e come nel Ragazzo morto e le comete ci troviamo di fronte a «una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti»


Sedotta dal prete bello
Ci sono dei libri che entrano a far parte della tua vita e vi rimangono per sempre.
Altri che ti accompagnano per il fugace periodo della lettura. Ci sono libri che non puoi fare a meno di leggere e quelli che eviti come la peste per svariati motivi.
"Il prete bello" di Goffredo Parise, per quanto mi riguarda, apparteneva all'ultima categoria.
Poi all'improvviso, eccolo lì, è il libro proposto come lettura mensile ad un piacevolissimo gruppo di lettura e giorno dopo fuoriesce con la sua copertina rossa ed impolverata da uno scatolone pieno di vecchie edizioni tascabili Garzanti.
Ovviamente non può essere un caso! Semmai il caso grave è non averlo letto prima.
Gran bel libro, ben scritto, con quello stile che ti cattura facilmente e accompagna fino alla fine.
Un romanzo corale che mi ha ricordato prepotentemente "Cronache di poveri amanti" di Vasco Pratolini che da ragazzina avevo divorato.
Nella provincia veneta degli anni '30, in un quartiere povero ed in particolare in un caseggiato fatiscente, si muovono Sergio (voce narrante), la sua famiglia, gli amici, le vicine zitelle ed un corollario vario di personaggi particolari e ovviamente Gastone, il prete bello.
Un breve romanzo che fa sorridere, intristisce e che mi ha riportato indietro nel tempo, a certi racconti di vita vera che mi facevano i nonni.
E ora mi è scattato il desiderio di vedere o meglio rivedere con maggiore attenzione i film ispirati a questo romanzo di Parise. Sorridendo mi viene da dire: caspita don Gastone, miracolosamente hai stregato pure me!


Marya, giovane inglese sposata con il polacco Stephan, si sente, per la prima volta nella sua vita, «molto vicina a essere felice». Ed ecco che, da un giorno all’al­tro, il marito finisce in galera lasciandola senza un soldo né un amico al mondo. L’agognata felicità assume allora per un istante le sembianze di Heidler, facoltoso mercante d’arte, che però la trascina – sotto gli occhi compiacenti e maligni del­la moglie – in una lunga, torpida osses­sione. Sullo sfondo di una Parigi mai così crudele, in una Rive Gauche ingan­nevol­mente romantica e mondana, Marya finisce per trovarsi avviluppata in un tor­mentoso ménage à trois; e quando, con un palpito di disperata onestà, prova a lacerare il velo delle apparenze, com­prende che in quell’irrespirabile bohème i codici sociali pesano quanto e più che altrove. Schiacciata fra l’anelito a una vita rispettabile e la realtà obbligata del demi-monde, si scopre così condannata senza appello all’«esistenza grigia, spaventosa, dei derelitti»: un mondo irreale e al tem­po stesso terribilmente concreto, fatto di sordidi caffè e grame camere d’albergo, dove è impossibile trovare scampo alla tragica ineluttabilità della vita.

Persone insulse
Leggendo questo libro mi sarei aspettata di “respirare” la Parigi degli anni ’20, con la sua musica Jazz, gli artisti ed intellettuali seduti ai tavolini dei caffè, la moda di Coco, la voglia di vivere, il risveglio post-bellico e tutto ciò che affascina di quei famosi anni ruggenti.
Ma da questo libro, a quanto pare con una forte componente autobiografica dell’autrice, trapela solo una grande malinconia, tristezza e soprattutto mediocrità. Mediocrità di tutti i protagonisti. Nessuno a mio avviso si salva. La protagonista principale è Marya, inglese sposata con un “trafficone” polacco che quando finisce in carcere lasciandola senza soldi per sopravvivere nei miseri alberghi Parigini decide ad accettare l’ospitalità di una coppia di amici. E il gioco inizia…
E dopo 170 pagine circa per fortuna il romanzo finisce….